2. Pavarotti, primo tenore.
Gli anni sessanta del secolo scorso avevano consegnato al mondo del teatro d’opera un Pavarotti che non rappresentava solo una grande promessa, bensì un cantante che, grazie alla lungimiranza di alcuni addetti ai lavori (si leggano in primis Leone Magiera, i coniugi Bonynge ed Herbert von Karajan), a qualche buon colpo della sorte e ad una bella dose di incosciente coraggio, era riuscito in pochi anni a bruciare tappe considerevoli e a far prefigurare orizzonti ancora più ampi.
Se nel 1969 era stato il tenore più presente alla Scala con ben tre titoli: Bohème, Figlia del reggimento e Manon, nel 1970 sul palcoscenico milanese Pavarotti interpretò solo L’elisir d’amore in una giovanile edizione diretta da Giuseppe Patanè e con ben tre Adine quali Maddalena Bonifaccio, Vilma Vernocchi e Adriana Maliponte, oltre ai consumatissimi Capecchi e Montarsolo.
Poco prima aveva calcato le scene del San Carlo di Napoli in una Lucia di Lammermoor, diretta da Carlo Franci e con protagonista Christine Deutekom, divenuta famosa per essere stata riversata in disco. Proprio con il capolavoro romantico di Gaetano Donizetti si consumò un ritorno in gran spolvero al Metropolitan, a fianco della protagonista Renata Scotto, direttore ancora Franci, cui seguì un’altrettanto acclamatissima Traviata, in cui, nelle tre recite che ebbe ad interpretare, dovette cimentarsi con tre diverse Violette (Sutherland, Moffo e Tucci), due Germont (Milnes e Merrill) e due direttori d’orchestra (Bonynge e Molinari Pradelli).
Il 1971 si aprì con il debutto al Teatro del Liceo di Barcellona con La bohème a fianco di Montserrat Caballé ed ancora con Lucia di Lammermoor, sempre con la Deutekom. Dopo significativi ritorni al Met in Bohème ed al Covent Garden in Rigoletto, il 27 ottobre, Pavarotti debuttò nella prediletta San Francisco nel ruolo di Riccardo in Un ballo in maschera.
Con la scelta di questo titolo il tenore modenese apriva un nuovo filone operistico nel suo repertorio, discostandosi dal cliché che aveva accomunato tutti i titoli precedenti. Pavarotti si era presentato come il tenore lirico d’eccellenza nei ruoli amorosi grazie alla sua vocalità tersa, ma screziata da sfumature naturali o ben ricercate; via via aveva inserito titoli più spregiudicati, contraddistinti dalle caratteristiche vocali tipiche del tenore contraltino per via delle tessiture arditissime. Ora andava a decidere di compiere un passo (e vedremo che non sarà l’unico in questo decennio) in senso opposto, ovvero verso un tipo di opere in cui il fattore interpretativo assurge a valore almeno paritario con quello vocale, reso quest’ultimo più accessibile da tessiture meno acrobatiche e rischiose.
Queste scelte operate negli anni settanta, in prima istanza, non gli pregiudicheranno la possibilità di alternare ancora tutti i titoli del suo repertorio, ma a lungo andare condizioneranno la resa nel repertorio del decennio successivo.
Pavarotti, prima di debuttare nell’opera verdiana, aveva già cantato Un ballo in maschera in sala d’incisione, avendo accettato una proposta della Decca di registrarlo a fianco di Renata Tebaldi: se ne innamorò e decise di interpretarlo anche sulle scene. A San Francisco il nostro tenore si presentò in forma smagliante e diede una travolgente dimostrazione di esuberanza vocale e facilità d’emissione. Non stette a guardare troppo per il sottile l’aspetto interpretativo, ma quando un pubblico sente cantare come quello californiano ascoltò nell’occasione Pavarotti, non può che esplodere in ovazioni entusiastiche. A fianco di Pavarotti, sotto la direzione di Charles Mackerras, si esibirono Martina Arroyo, Helen Donath, Irene Dalis e Franco Bordoni.
A riprova di quanto asserito poc’anzi, Pavarotti continuò anche nel repertorio tradizionale ed, infatti, eccolo trasferirsi a Filadelfia per sostenere, il 18 gennaio 1972, una recita di Puritani a fianco di Beverly Sills. Anche questa fu una serata passata alla storia, in quanto venne registrata e diffusa su dischi e cd. Fu una recita sensazionale per lo stato di forma vocale che i due protagonisti, diretti da Anton Guadagno, misero in evidenza e che consentì loro di superare tutti gli scogli della terribile tessitura belliniana.
Esattamente un mese dopo, il 17 febbraio, Pavarotti sfidò anche le scene del Metropolitan con la sua acrobatica Fille du régiment ed i suoi ‘do sovracuti’. Ne cantò otto recite al Met più altre dieci nel tour che il teatro newyorkese portò a Boston, Cleveland, Minneapolis, Atlanta, Menphis, New Orleans e Detroit. Delle recite al Metropolitan esiste la registrazione integrale che attesta l’entità del trionfo per il nostro tenore, ma esiste una registrazione della sola scena dei ‘nove do’ della recita di Atlanta, in cui si può cogliere quanto grande sia stato l’entusiasmo di un pubblico meno avvezzo a spettacoli di tale levatura al termine dell’ultimo lunghissimo ‘do’. Al termine del tour, Pavarotti si ripresentò sul palcoscenico del Met per interpretare Rigoletto a fianco di Joan Sutherland, Sherrill Milnes e Matteo Manuguerra.
La stagione estiva dell’Arena di Verona, lo riportò in Italia, dopo oltre un anno di assenza. L’opera prescelta fu quella del recente debutto, quel Ballo in maschera, che, così, veniva subito proposto anche al pubblico italiano. Direttore fu Francesco Molinari Pradelli, mentre Rita Orlandi Malaspina si rivelò sontuosa Amelia, Mario Zanasi, Daniela Mazzucato e Adriana Lazzarini completarono l’eccellente cast.
Dopo una vacanza a Pesaro, il nostro tenore partì per uno straordinario avvio di stagione 1972-73 con tre opere a Bilbao ed Oviedo: La figlia del reggimento con Mirella Freni, Lucia di Lammermoor con la Bonifaccio e, ancora con la Freni, La bohème, sotto la direzione di Leone Magiera.
Immediato fu poi l’imbarco sul volo che lo avrebbe portato oltre Atlantico, dove, a San Francisco, lo aspettava una nuova straordinaria performance con Beverly Sills nella Lucia di Lammermoor. Il successo fu anche in questa circostanza travolgente per entrambi i protagonisti e per il direttore Jesus Lopez-Cobos.Esaurite le sei recite di sua competenza, si trasferì a New York per un lungo soggiorno correlato alla ripresa al Metropolitan di ben quattro opere: La bohème, Lucia di Lammermoor, Fille du régiment e Rigoletto, per complessive 12 recite.
Anche per questa stagione, il rientro in Italia privilegiò la sola Arena di Verona, dove cantò quattro recite della Bohème a fianco di Renata Scotto, Mario Sereni e Ivo Vinco, sotto la direzione di Peter Maag. Ma la concentrazione di Pavarotti era tutta riservata ad un nuovo debutto, in apertura di stagione, a San Francisco. Trascorse un lungo periodo estivo a fianco di Leone Magiera, col quale studiò e ripassò a lungo la nuova parte, che aveva già in programma dovesse sancire il suo ritorno alla Scala per l’inverno successivo.
Ma andiamo per ordine. La nuova opera era La favorita di Gaetano Donizetti; un titolo appartenente al filone tradizionale del suo repertorio. Opera rischiosa per la lunghezza della parte, per il registro acuto sollecitato più volte, in qualche occasione più per tradizione che per scrittura, come il ‘do’ non scritto che conclude l’opera.
Luciano Pavarotti - Nessun dorma - direttore Ino Savini, Reggio Emilia (1976)
A San Francisco la protagonista doveva essere Christa Ludwig, ma una malattia del marito, Walter Berry, costrinse il mezzosoprano tedesco a rimanere in patria. Venne subito convocata Maria Luisa Nave che risultò un’eccellente Leonora, così come fecero gran figura Renato Bruson (Alfonso XI) e Bonaldo Giaiotti (Baldassarre). Pavarotti affrontò il ruolo da par suo, riaprendo, tra l’altro, il tradizionale taglio della seconda strofa di “Una vergin, un angiol di Dio”, che gli riservò una prima entusiastica ovazione. Analoga conclusione venne riservata dal pubblico ad uno stupendo “Spirto gentil” ed al finale dell’opera.
Dopo il debutto al Metropolitan in Elisir d’amore, di cui eseguì 10 recite con cast diversi, ed il rientro europeo, consumato in terra tedesca, il tenore modenese rientrò nella sua città per preparare a dovere il ritorno al Teatro Comunale di Bologna. L’iter di avvicinamento alla Scala, prevedeva una tappa nel capoluogo emiliano per mettere ulteriormente a punto quel ruolo di Fernando a lui tanto congeniale. Sotto la direzione di Molinari Pradelli e con Bruna Baglioni, Silvana Mazzieri, Renato Bruson e Carlo d’Adda interpretò cinque trionfali recite, di cui esiste anche buona documentazione sonora.
Quando ancora doveva interpretare l’ultima recita bolognese, nella prima quindicina di gennaio 1974, Pavarotti era già a Milano per partecipare sin dall’inizio alle prove sul palcoscenico della Scala. Per l’occasione sarebbe dovuto salire sul podio Giuseppe Patanè, ma un incidente stradale mise fuori gioco il direttore napoletano. L’opera donizettiana non era frequentemente in repertorio in quegli anni ed il teatro milanese, dopo un rinvio della prima, non trovò di meglio che affidarne la direzione al solido Nino Verchi. Già dall’inizio si comprese che la serata sarebbe stata turbolenta: non si sa per quale ragione, Verchi, dopo le primissime note della celebre sinfonia, operò un tagliò netto passando direttamente alla prima scena con il coro fuori scena dei frati all’interno del convento. Fatto questo che giunse assai sgradito al pubblico, che cominciò a mormorare a scena aperta.
Da parte sua Pavarotti si era buscato un’influenza, non tale da fargli dichiarare forfait, ma che ne limitò in parte le prestazioni. Ciononostante la sua aria d’ingresso “Una vergin, un angiol di Dio” venne applaudita. Così come il duetto con la Cossotto del primo atto. Cappuccilli, dopo una buona cavatina, sbagliò un attacco nel concertato del secondo atto e fece perdere il filo del discorso musicale alle masse scaligere; il pubblico male interpretò l’incidente e se la prese con l’incolpevole Vinco che, col direttore Verchi, divenne capro espiatorio di una serata infelice. Pavarotti e la Cossotto furono applauditi, ma la situazione che si era creata portò alla rinuncia da parte di tutti i principali interpreti; l’opera fu sospesa e ripresa solo in un secondo momento con Bruna Baglioni, Umberto Grilli e Paolo Washington.
Luciano Pavarotti - Tombe degli avi miei... Tu che a Dio spiegasti l'ali (Verona 1976)
Con la Scala, Pavarotti partecipò ad una tournée a Mosca, dove, nella Sala del Conservatorio, interpretò una Messa da requiem di Verdi sotto la direzione di Claudio Abbado e con Katia Ricciarelli, Mirna Pecile e Nicolaj Ghiaurov. In quella stessa stagione, fu protagonista di Un ballo in maschera alla Fenice di Venezia e di Rigoletto allo Sferisterio di Macerata, con Rosetta Pizzo e Sherrill Milnes..
Ma, ormai, era pronto un altro debutto, questa volta in campo verdiano, con Luisa Miller. Il 13 novembre 1974, andò in scena a San Francisco diretta da Jesus Lopez-Cobos e a fianco di Katia Ricciarelli. Peraltro, Pavarotti la replicò subito, un mese dopo, in Italia, alla RAI di Torino, insieme a Gilda Cruz-Romo e Matteo Manuguerra, sotto la direzione di Peter Maag. Fu un’opera che si rivelerà una delle più notevoli interpretazioni verdiane di Pavarotti, che riaprì molti dei tagli da tradizione e che, alla Scala nel maggio 1976, la presentò perfino con la riproposta del ‘da capo’ della cabaletta “L’ara o l’avello apprestami”, ottenendo un successo trionfale.
Alla Scala si era presentato dopo un altro successo che aveva ottenuto ancora a San Francisco nel Trovatore, dando ulteriore impulso al nuovo corso nel quale aveva indirizzato il suo repertorio. Il trionfo ottenuto vestendo i panni di Manrico fece il giro del mondo coinvolgendo anche gli altri interpreti del capolavoro verdiano Joan Sutherland, Elena Obratszova, Ingvar Wixell e Clifford Grant ed il direttore Richard Bonynge.
Ma l’eco più significativa al momento di risalire sul palcoscenico scaligero per la già citata Luisa Miller era quella riguardante il trionfo al Metropolitan, nell’occasione che rappresentò anche l’addio ad uno dei suoi cavalli di battaglia giovanili: I puritani. Sotto la direzione di Bonynge l’opera belliniana venne interpretata da Joan Sutherland, Sherrill Milnes e James Morris, con Pavarotti prese parte a ben dieci recite. Durante quelle rappresentazioni, il tenore trovò pure modo di partecipare anche a sei rappresentazioni di Der Rosenkavalier di Richard Strauss, nel breve, ma difficilissimo ruolo del Cantante italiano.
Superati brillantemente i rientri alla Scala in Luisa Miller (con la Caballè, la Maliponte e Cappuccilli) ed al Covent Garden di Londra in Un ballo in maschera (con la Arroyo e Bruson), ad inizio estate, si verificò un momento dolente della vita non solo artistica di Luciano Pavarotti. L’ultimo spettacolo della stagione era Lucia di Lammermoor all’Arena di Verona (con Christine Deutekom e Mariella Devia ad alternarsi nel ruolo della protagonista), contrassegnata nelle prime serate dal consueto tripudio di pubblico. Ma, nel corso della quarta recita, Pavarotti fu costretto ad abbandonare per un malore che non aveva nulla a che vedere con il suo stato vocale. I medici prescrissero esami ed un adeguato periodo di riposo e cure.
L’attività riprese oltre due mesi dopo con lo spettacolo inaugurale della stagione 1976-77 del Metropolitan ed esattamente con un Trovatore diretto dal ‘debuttante’ Gianandrea Gavazzeni e con Renata Scotto, Shirley Verrett, Louis Quilico e James Morris. Il successo fu franco, ma il nostro tenore apparve più timoroso del solito. Le recite di quella stagione diminuirono in quantità rispetto alle precedenti, ma comunque, Pavarotti non mancò di portare felicemente a termine un nuovo debutto, il 26 novembre 1976, allorché interpretò per la prima volta Tosca di Giacomo Puccini al Lyric Opera di Chicago, con a fianco Carol Neblett, Cornell MacNeil e Italo Tajo, ancora sotto la guida di Jesus Lopez-Cobos.
Tornato in Europa, replicò subito Tosca al Covent Garden a fianco di Raina Kabaiwanska e Peter Glossop, mentre all’Opera di Vienna partecipò a recite del Trovatore diretto da Karajan con Leontyne Price, Christa Ludwig, Piero Cappuccilli e Josè Van Dam.
Aveva ritrovato la consueta sicurezza e tranquillità e potè, così, concludere la stagione con una trionfale Tosca al Festival Pucciniano di Torre del Lago, dove fu costretto a furor di popolo a concedere il bis di “E lucevan le stelle”. Protagonista, nell’occasione, fu un’altra volta Raina Kabaiwanska, mentre a sostenere il ruolo di Scarpia fu un eccellente Giampiero Mastromei, sotto la direzione di Nino Sanzogno.
La successiva stagione 1977-78 si identificò in due principali eventi: il debutto a S. Francisco nella Turandot (29 ottobre 1977) e l’addio alla Favorita, ultima opera sopravvissuta del repertorio da tenore contraltino, eseguita al Metropolitan di New York il 21 febbraio 1978.In mezzo a quelle due date, si collocò il ritorno alla Scala per Un ballo in maschera e Messa da Requiem, oltreché per l’incisione con Claudio Abbado di Pagine inedite verdiane per la Fonit Cetra.
Con l’abbandono di Favorita, interpretata per sei serate a fianco della protagonista Shirley Verrett, Sherrill Milnes e Bonaldo Giaiotti, Pavarotti diede definitivo addio ad un repertorio che lo aveva portato ad essere ‘primo tenore’, per la tipicità della voce e per l’estensione che lo avevano condotto a traguardi ad altri preclusi.
Nel 1979 fu protagonista alla Scala di una mirabile edizione di Elisir d’amore a fianco di Mirella Freni ed Alida Ferrarini e della leggendaria Bohème di Carlos Kleiber, che riuscì a sfruttare uno straordinario momento di salute vocale per fargli cantare di nuovo “Che gelida manina” in tono: il risultato fu strepitoso e vide la vocalità di Pavarotti sorvolare con timbro solare la corposa strumentazione del direttore tedesco.
Nel 1980, Pavarotti debuttò a San Francisco (con la Scotto) nella Gioconda, opera che replicò anche all’Arena di Verona (con la Dimitrova e Cappuccilli), bissando tutte le sere “Cielo e mar” e, nel 1981, sempre nel teatro californiano interpretò per la prima volta Radames a fianco delle due Price (Margaret e Leontyne).
In questi anni ottanta trovò novelli e rinnovati motivi di entusiasmo, ma il dado era ormai tratto verso il repertorio del tenore lirico spinto, che lo porterà a condizionare anche le opere superstiti del vecchio repertorio quali Elisir d’amore, cantata sempre splendidamente, ma con minor duttilità e morbidezza e la stessa Bohème, sempre cavallo di battaglia, ma eseguita con trasposizione di tono della pagina principale.
Infine, in quegli anni diminuirà piuttosto drasticamente il numero delle recite operistiche, a favore dei meno dispendiosi concerti.
2. continua
Antonio Colli