Inaugurando questo Speciale a puntate dedicato a Luciano Pavarotti nel decennale della scomparsa, siamo lieti di anticiparvi alcuni cenni biografici dell'autore, Antonio Colli, che ringraziamo per il prezioso contributo.
Antonio Colli è nato a Milano nel 1947 ed ha iniziato a frequentare il loggione del Teatro alla Scala già dal 1961, iniziando lo studio del canto presso la Scuola Civica Musicale di Milano ed avviandosi, quale autodidatta, all’approfondimento dei testi dei maggiori esperti in campo operistico, quali Angelo Sguerzi, Rodolfo Celletti e Giorgio Gualerzi.
Nel 1974 ha vinto un concorso indetto dalla rivista specializzata Discoteca, iniziando così una lunga attività, sia giornalistica che radiofonica. Dal 1975 al 1988 ha ideato e condotto trasmissioni su primarie emittenti radiofoniche del nord-Italia e dal 1989 al 2009 ha collaborato stabilmente con la rivista Corriere del Teatro. Dal 2000 è stato costantemente membro della giuria del Concorso Internazionale di Canto “Pietro Mongini”, a fianco di personalità quali Giulietta Simionato, Raffaello de Banfield, Giorgio Gualerzi, Adriano Bassi, Giancarlo Landini ed il nostro direttore Danilo Boaretto.
Ha pubblicato due importanti monografie: “Giuseppe Verdi - Un mondo da scoprire” (2001) e “Luciano Pavarotti - L’altro verso della medaglia” (2009).
Introduzione
Parlare o scrivere di Luciano Pavarotti può sembrare agevole a prima vista. Famosissimo, facile alle manifestazioni mediatiche o anche semplicemente relazionali con chiunque l’accostasse, il tenore ha favorito indirettamente il proliferare di notizie o semplici informazioni sul suo conto. Tutti, insomma, sembrano avere qualcosa da dire o aggiungere a quanto già non si sappia. Ma che cosa si conosce realmente di Pavarotti? A dieci anni di distanza dalla scomparsa di un personaggio di tale calibro, si è usciti oramai dagli ambiti della cronaca e ci si avvia sui sentieri più impegnativi della storia. Parlare oggi di Pavarotti e commemorarlo non significa rendergli un retorico e inutile omaggio, significa contribuire a consegnare alla storia la verità su chi effettivamente egli sia stato. E qui il rischio è grande. Commemorazioni parziali, inesatte o con altri veri scopi possono ricadere nel falso storico e tramandare alle generazioni che vengono e che verranno immagini e contenuti distorti. A questo punto si apre uno scenario quasi sconfinato e quindi ne esco subito, riservandomi di riaprire qualche finestra di approfondimento sul tema.
In questa occasione è possibile limitarsi ad enunciare per gradi e mediante numeri e dati chi sia stato e che cosa esattamente abbia realizzato il tenore modenese, al fine di identificare, come in una scultura, i contorni ed i dettagli di un personaggio poliedrico come egli è stato.
Nei circa quarant’anni di carriera Pavarotti ha interpretato nei maggiori teatri d’opera del mondo circa mille recite di opere dei più grandi compositori; ha cantato in circa duemila concerti, prevalentemente sulle tavole dei più grandi palcoscenici del mondo. Solo in limitate occasioni questi concerti si sono svolti in grandi spazi aperti (parchi, stadi, palazzi sportivi, ecc.) ed hanno goduto dell’ausilio di impianti di amplificazione e microfonazione; una dozzina di concerti dei Tre Tenori ed altrettanti di Pavarotti and Friends.
Se in molte occasioni i numeri sono solo aridi dati, in questa occasione riassumono a chiare lettere quale sia stata l’attività artistica preponderante del tenore, al quale questa definizione stava molto a cuore se, in tempi non sospetti, si lasciò andare ad una esternazione quanto meno singolare: “Vorrei essere ricordato come un cantante d’opera”. A quale altro suo collega, da Bergonzi a Corelli, da Kraus a Raimondi, sarebbe mai venuta in mente una tale dichiarazione? Evidentemente Pavarotti, sempre lucido e consapevole delle proprie scelte, temeva che alcune attività, ancorché marginali ma di grande impatto mediatico e popolare, potessero far passare in secondo piano la vera vocazione artistica cui aveva dedicato tutta la vita, la fatica e lo studio.
Questa intuizione (e preoccupazione) si è rivelata fondata, giacché, negli anni, la maggior parte delle commemorazioni, specie se realizzate da televisioni e rotocalchi, si sono rivelate inadeguate, se non addirittura fuorvianti nei confronti del ruolo spettante a Luciano Pavarotti nella storia della musica.
Pavarotti, grande “cantante d'opera”, ha cantato in teatro trentuno opere di molti tra i più grandi compositori di ogni tempo: Bellini, Donizetti, Rossini, Verdi Puccini, Ponchielli, Leoncavallo, Giordano, Massenet, Strauss, Mozart. Ha inciso, inoltre, altre nove opere complete di Bellini, Puccini, Verdi, Donizetti, Rossini, Mascagni, Boito e Berlioz, più l’Inno delle Nazioni di Verdi. Ha inciso anche ventiquattro recital/concerti, alcuni dei quali registrati dal vivo, di cui diciassette dedicati integralmente o nella gran parte parte a pagine operistiche, fra cui il disco della Fonit Cetra dedicato a Giuseppe Verdi - Pagine inedite, sotto la direzione di Claudio Abbado.
Si può ricordare come la carriera artistica di Luciano Pavarotti possa dividersi sommariamente in tre periodi. Un primo, che va dal debutto ai primissimi anni ’80 del secolo scorso, in cui il suo repertorio si incentrò su titoli del classico tenore lirico, spesso contraltino, caratterizzato da tessiture molto elevate che Pavarotti risolveva con uno squillo argentino di straordinaria luminosità. La capacità di affrontare ruoli acuti si sposava con un timbro vellutato e rotondo, ricco di screziature nel colore e nella pastosità della voce, oltre che poggiante sulla nitidezza esemplare della dizione. Di questo periodo sono la prediletta Bohème, i Puritani, La figlia del reggimento, la Favorita, lo Stabat Mater di Rossini, gli allora desueti Capuleti e Montecchi di Bellini ed il ruolo del Cantante Italiano nel Rosenkavalier di Strauss.
Col debutto in Un ballo in maschera (avvenuto nel 1971) Pavarotti iniziò a cimentarsi nei ruoli più spinti, che ebbe l’avvedutezza di affrontare mantenendo salvi i connotati e le peculiarità del proprio impianto vocale ed alternando questi titoli con opere del suo repertorio tradizionale. Così si susseguirono i debutti in Turandot, Trovatore, Tosca, Luisa Miller, Gioconda, Aida ed Ernani, eseguito, quest’ultimo con l’inedita scena finale del terzo atto che Verdi scrisse per il tenore Ivanoff.
Dell’ultimo periodo fanno parte le escursioni nel repertorio drammatico, con interpretazioni un po’ personalizzate, ma comunque sempre interessanti di Otello, Pagliacci, Don Carlo ed Andrea Chénier.
Pavarotti portò questi titoli per il mondo in tutti i principali e storici teatri d’opera quali la Scala, l’Opera di Roma, il San Carlo di Napoli, il Metropolitan (con oltre 300 recite), il Covent Garden di Londra, l’Opera di Vienna e quella di Berlino, l’Opera di San Francisco, la Lyric Opera di Chicago, l’Opera di Filadelfia, il Massimo di Palermo, i Comunali di Bologna e Firenze, La Fenice di Venezia, il Carlo Felice di Genova, il Regio di Torino, l’Arena di Verona, lo Sferisterio di Macerata, il Colón di Buenos Aires, il Municipal di Caracas e, via via a Pechino, a Mosca, nei teatri giapponesi e australiani e in altri ancora.
Nella prossima puntata, la seconda di tre complessive, inizieremo a ripercorrere le tappe fondamentali della carriera di Luciano Pavarotti, iniziando dai primi anni successivi al debutto e rivisitando quei fantastici anni ’60 e ’70 che lo portarono ad affrontare, uno dopo l’altro, titoli contrassegnati da grandi difficoltà che lo condussero ad un primo, sicuro successo.
1. Il giovane Pavarotti
Il pubblico presente al Teatro Municipale di Reggio Emilia quella fatidica sera del 29 aprile 1961 non fece grande fatica a preconizzare per il giovane tenore, che incarnava Rodolfo nella Bohème di Giacomo Puccini, una brillantissima carriera artistica. Gli ingredienti c’erano tutti fin da allora e chiunque voglia soddisfare questa curiosità può ascoltare la registrazione di quella recita che è stata riversata in disco e cd e gode di un suono sufficientemente buono. Quella sera sul podio c’era Francesco Molinari Pradelli, ma già nella replica del 4 maggio, la bacchetta venne impugnata da Leone Magiera e la sede fu il Teatro Comunale di Modena.
La vita artistica di Luciano Pavarotti fu costellata da una serie di fondamentali incontri. Leone Magiera fu probabilmente il primo: era il fidanzato di Mirella Freni, che per Luciano era l’amica d’infanzia, la collega di studi, la compagna di viaggio verso Mantova dove risiedeva il comune maestro, Ettore Campogalliani. In diverse occasioni Magiera ebbe l’opportunità di accompagnare in macchina i due aspiranti-cantanti.
Dopo la fiducia di Arrigo Pola e quella di Campogalliani, Pavarotti poté contare anche su quella di Magiera. Nacque così un sodalizio artistico che durerà tutta la vita. Magiera non sarà solo il pianista accompagnatore di miriadi di concerti o il direttore d’orchestra per le numerose esibizioni nelle sedi più prestigiose, sarà, anche e soprattutto, l’autentico maestro che farà studiare a Pavarotti pressoché tutte le opere entrate nel suo repertorio e preparerà con lui tutti gli appuntamenti più prestigiosi, andando a ricoprire sempre un ruolo di primaria importanza.
Negli anni ’60 Pavarotti consumò i più importanti debutti sui più grandi palcoscenici del mondo e cominciò ad affrontare, con costante gradualità, nuovi personaggi.
Già dal mese di settembre successivo al debutto, Pavarotti diede inizio una lunga peregrinazione che lo portò a calcare le scene di moltissimi teatri italiani ed europei, anche accettando di sostituire colleghi indisposti per una sola recita. Debuttò rapidamente in Rigoletto, Traviata e Lucia di Lammermoor; durante questa tournée ebbe modo di cantare al fianco di cantanti come Rosanna Carteri, Virginia Zeani, Anna Moffo, Margherita Rinaldi, Gundula Janowitz. Fra le numerose recite di questo periodo meritano un ricordo particolare quelle (furono quattro in tutto) sostenute al Teatro Massimo di Palermo in Rigoletto a partire dal 15 marzo 1962, a fianco di Gianna D’Angelo ed Ettore Bastianini.
Quest’edizione di Rigoletto fu fondamentale per il giovane tenore, perché dovette sostenere l’arduo esame d’ammissione, eseguendo tutta l’opera al pianoforte nella casa romana del Maestro Tullio Serafin. Dopo aver debuttato anche nel ruolo di Idamante nel mozartiano Idomeneo a Glyndebourne, sotto la direzione di John Pritchard, il nostro tenore fece una nuova puntata a Modena per interpretare, a fianco di Mirella Freni ed Attilio D’Orazi, una sola recita, ma travolgente, della Traviata. Il tutto proprio alla vigilia di una precipitosa partenza per Miami. Cos’era accaduto? Joan Sutherland doveva cantare nella città principale della Florida Lucia di Lammermoor, in una produzione per la quale era stato scritturato il tenore italiano Renato Cioni. Il caso volle che, in quello stesso periodo, Maria Callas, che doveva fare il proprio rientro sulle scene al Covent Garden di Londra nella Tosca, avesse specificamente richiesto come partner proprio Cioni. Nessuno pensò di non assecondare i desideri della Divina ed a Miami cominciarono le audizioni per sostituire il tenore toscano nel modo più adeguato. Si racconta che, quando Richard Bonynge ebbe concluso la selezione, sia andato dalla moglie dicendogli che “questa volta non devi cantare con un tenore più piccolo di te”, scoppiando in una risata. Il 15 febbraio 1965 Pavarotti cantò con grandissimo successo Lucia di Lammermoor a fianco di Joan Sutherland, Enzo Sordello e Richard Cross. Si consumarono così due incontri fondamentali per il nostro tenore: primo, quello con la Sutherland e l’altro, non meno importante, con gli Stati Uniti d'America.
Esattamente un mese dopo Pavarotti tornò sul palcoscenico del Covent Garden (dove qualche mese prima aveva sostituito Giuseppe Di Stefano in una Bohème) per cantare a fianco di Renata Scotto e Peter Glossop nella Traviata. Ed ecco il miracolo! Joan Sutherland che nel mese di maggio avrebbe dovuto sostenere a Londra La Sonnambula, chiese ai responsabili del teatro di trattenere a Londra Pavarotti e pretese che fosse lui ad indossare i panni di Elvino. Doppio grande trionfo al Covent Garden.
Ma non era finita lì. La Sutherland e Bonynge, entrambi australiani, avevano in programma per la successiva estate una lunga tournée in patria, dove avrebbero toccato Sidney, Melbourne, Adelaide e Brisbane. Il programma del viaggio prevedeva quattro opere: L’Elisir d’Amore, La Traviata, Lucia di Lammermoor e La Sonnambula. Ebbene Luciano Pavarotti fu caricato sul jet intercontinentale che portava allestimenti, maestranze e cantanti in Australia e là fu protagonista di tutte e quattro le opere per un totale di trentanove recite. Grande fu l’entusiasmo che circondò la compagnia ed il nostro tenore ebbe una nuova importante consacrazione.
La tournée australiana ebbe termine a fine agosto e Pavarotti decise, dopo un simile tour de force, di prendersi un opportuno periodo di riposo: ad attenderlo, infatti, c’era quello che tutti considerano il vero debutto di Pavarotti alla Scala.
In verità, proprio nel mezzo fra recite di Traviata ed il debutto in Sonnambula era giunta a Londra una telefonata della Scala: Gianni Raimondi si era ammalato e, per la sua sostituzione, Herbert Von Karajan, che doveva dirigere l’ultima recita di Bohème, pretese che fosse chiamato Pavarotti. È inutile dire con quale entusiasmo il nostro tenore si sia precipitato a Milano, dove, oltre allo sponsor Karajan, trovò Mirella Freni a condividere l’esito trionfale della serata. Era il 28 aprile 1965.
Se il debutto sul più prestigioso palcoscenico del mondo si era già consumato, in pochi a Milano vi avevano partecipato e neppure gli organi di stampa avevano più di tanto dato eco all’evento.
Il mondo musicale milanese attendeva con ansia il debutto di questo giovane tenore che per la prima volta faceva parte del primo cast nella seconda opera della stagione, Rigoletto, diretto da Molinari Pradelli, a fianco di Margherita Rinaldi, Peter Glossop, Adriana Lazzarini e Nicola Zaccaria.
La sera della prima il 9 dicembre, il successo fu franco e schietto, ma andò via via a consolidarsi durante le repliche, che proseguirono per tutto il mese. Tale fu la sua portata che il nostro tenore venne subito reimpiegato in riprese della Bohème a fianco di Mirella Freni, Anna Novelli e Gianna Galli.
Ancora al Teatro alla Scala si verficò un nuovo debutto, quello nei Capuleti e Montecchi, sotto la direzione di Claudio Abbado e con Renata Scotto, Giacomo Aragall e Mario Petri. In tutte le recite al termine della cavatina di Tebaldo del primo atto, su Pavarotti si riversarono gli scroscianti applausi del pubblico.
Al termine delle cinque recite dell’opera di Bellini, Pavarotti era pronto per tornare a Londra, dove l’attendevano i coniugi Bonynge per una nuova, quasi impossibile impresa. Il titolo previsto dal cartellone del Covent Garden, infatti, era La Fille du Régiment, operina leggiadra e giocosa che Gaetano Donizetti aveva scritto per l’Opéra Comique di Parigi. Leggiadra e giocosa fin che si vuole, per il tenore di una difficoltà terribile, visto che poco prima del finale atto primo, in poche battute ripetute due volte sono previsti otto do acuti scritti dal compositore, più un nono conclusivo aggiunto per prassi dal cantante. Questa pagina, per tradizione, solitamente veniva abbassata di un intero tono, o addirittura era soppressa ipso facto.
Con questa prospettiva, Pavarotti si imbarcò alla Malpensa sul volo diretto a Londra, dove, peraltro, Richard Bonynge covava ben più agguerrite intenzioni. Cominciò a circuire il tenore, come suol dirsi, tra il serio ed il faceto, finchè questi, quasi per scommessa cominciò a sciorinare i suoi do. Tra l’iniziare facendone qualcuno e il finire eseguendoli tutti il passo fu breve e l’opera andò in scena in versione integrale e così come il compositore l’aveva scritta. Se Maria è l’indiscussa protagonista dell’opera, in quell’occasione, nonostante la straordinaria presenza della Sutherland, fu il Tonio di Pavarotti a risultare il trionfatore della serata. Seguirono altre sei recite, ma il Covent Garden, per rispondere a tutte le richieste, mise La Fille du Régiment in cartellone anche per la stagione successiva.
Pavarotti non si fermò lì e sottoscrisse con la Scala un contratto che lo impegnava ad interpretare la Figlia del Reggimento, nella versione ritmica italiana, per due stagioni consecutive nel 1968 e 1969.
Proprio all’indomani delle cinque recite previste per il 1968 alla Scala, Pavarotti si trasferì al Teatro Bellini di Catania per esordire in un altro capolavoro del proto-romanticismo italiano, I Puritani di Vincenzo Bellini. La sera del 22 marzo 1968 il tenore modenese uscì trionfatore anche del temibile ruolo di Arturo Talbo, con tutti i suoi do diesis, accomunando il successo con Gabriella Tucci, Aldo Protti e Ruggero Raimondi.
Il 1966, così come si era sviluppato e svolto, si concluse in modo trionfale con l’inaugurazione della nuova stagione al Teatro dell’Opera di Roma la sera del 19 novembre. Il titolo in cartellone era un Rigoletto diretto da Carlo Maria Giulini e con Renata Scotto e Kostas Paskalis: sette recite a Roma, cui ne seguirono altre quattro al Comunale di Firenze dove l’allestimento era stato trasferito nel segno di una proficua co-produzione. Tempo quindici giorni e Pavarotti si ritrovò sul palcoscenico del Teatro alla Scala, dove si fermò per un periodo più lungo del previsto. Prese parte, infatti, a ben sedici recite della ripresa del Rigoletto dell’anno precedente, sempre a fianco di Glossop e di Margherita Rinaldi, che si alternò con la Guglielmi nel ruolo di Gilda.
Durante il suo soggiorno milanese, si verificò un imprevisto. Ma andiamo per ordine. Ai primi di gennaio 1967 erano iniziate le prove per una Messa da Requiem in commemorazione di Arturo Toscanini, nel centenario della nascita. Per l’occasione la Scala aveva pensato in grande scritturando un cast di prestigio mondiale: Leontyne Price, Fiorenza Cossotto, Shirley Verrett, Carlo Bergonzi e Nicolaj Ghiaurov. Il direttore era addirittura Herbert von Karajan. Durante le prove, però, un pernicioso malanno stagionale colpì Carlo Bergonzi, che fu costretto a dare forfait. A Karajan non parve vero che Pavarotti fosse a Milano per il citato Rigoletto, ed immediatamente pretese che fosse lui il tenore solista del capolavoro verdiano. E la buona sorte colpì due volte giacché le telecamere della Deutsche Grammophon, durante le prove, a teatro vuoto, ripresero l’intera esecuzione, tramandandola alla storia.
Il 1967, da questo punto di vista, fu davvero importantissimo perché diede il via alla rigogliosa attività discografica ufficiale del tenore modenese, che, infatti, registrò a Londra la sua prima opera completa, naturalmente sotto l’egida dei coniugi Bonynge, che lo vollero a fianco di Dame Joan nella belliniana Beatrice di Tenda, titolo che Pavarotti cantò solo in quell’occasione, lasciandone, peraltro, il segno.
Meno internazionale, ma comunque significativo, fu l’accordo che Pavarotti stipulò con la RAI per partecipare alla ripresa dal vivo di alcune opere che sarebbero poi state trasmesse alla radio italiana. Proprio in questo ambito, il 30 giugno, nel bel mezzo delle recite della Fille du Régiment al Covent Garden, fece un raid a Torino per registrare Lucia di Lammermoor, sotto la direzione di Francesco Molinari Pradelli ed a fianco di Renata Scotto, Piero Cappuccilli ed Agostino Ferrin.
Nell’autunno, il tenore modenese prese parte alla tournée della Scala in Canada, dove interpretò nuovamente Tebaldo nei Capuleti e Montecchi, opera che nei mesi precedenti aveva già portato, con i complessi scaligeri, in Olanda ed aveva eseguito all’Opera di Roma con il solito cast che si avvaleva di Margherita Rinaldi, Giacomo Aragall, Mario Petri. Alla Salle Pelletier di Montreal, ritrovò nel ruolo di Giuletta la Scotto, mentre Ferrin era subentrato a Petri in quello di Coppellio.
Quando i complessi, i cantanti e le maestranze della Scala presero il volo per rientrare alla Malpensa, Pavarotti rimase oltre oceano, dove, negli Stati Uniti, l’attendeva il debutto alla Memorial Opera House di San Francisco. Il rapporto con questo teatro, dopo il trionfale esordio nella Bohème, a fianco della Freni, della Scovotti di Wixell e Estes, assumerà un valore straordinario nell’evoluzione del repertorio del nostro tenore. Questo in quanto diventerà una sorta di teatro-laboratorio per il quale Pavarotti preparerà e nel quale debutterà le nuove opere che intendeva mettere in repertorio, come vedremo nelle prossime pagine.
Rientrato in Italia per le festività natalizie, il 22 dicembre registrò una strepitosa edizione dello Stabat Mater di Rossini nell’Auditorium della RAI al Foro Italico di Roma a fianco di Teresa Zylis-Gara, Shirley Verrett e Ruggero Raimondi, sotto la direzione di Carlo Maria Giulini.
Nella prima parte del 1968, spiccano una buona presenza alla Scala con la ripresa dei Capuleti e Montecchi e la già citata Figlia del reggimento in lingua italiana, ma, soprattutto spicca il grande debutto al Teatro Bellini di Catania nei Puritani a fianco di Gabriella Tucci, Aldo Protti e Ruggero Raimondi sotto la guida di Argeo Quadri.
Il 25 novembre, dopo varie peripezie, Pavarotti debuttò con qualche giorno di ritardo al Metropolitan di New York nella Bohème, a fianco della Freni e sotto la direzione di Molinari Pradelli. Questo debutto fu un po’ rocambolesco e, benché sostenuto da uno stupefacente successo, non fu del tutto felice. Giunto a New York, Pavarotti iniziò le prove, ma dopo pochi giorni fu colpito da una forte forma di influenza asiatica, virus che si era diffuso con velocità ed intensità nell’intera regione. Il medico del Metropolitan gli intimò subito il massimo riposo e costrinse i responsabili del teatro a differirne l’andata in scena. Pavarotti rimase immobile nella sua camera d’albergo per una settimana senza aprire bocca, quando ricevette una convocazione in teatro per una nuova prova in vista del debutto. L’audizione sembrò dare adeguate garanzie ed il nostro tenore poté salire sul palcoscenico più prestigioso d’America. Ma la decisione di mandarlo in scena si rivelò in breve tempo precipitosa. Alla seconda recita, infatti, cominciò ad avvertire segnali poco rassicuranti già nel corso del primo atto, e le conseguenze peggiori si manifestarono proprio durante “Che gelida manina” che fu portata a termine con qualche imbarazzo ed evidente calo di voce. Pavarotti venne sostituito nel corso della recita da Barry Morell e decise di annullare le altre recite.
Le conseguenze di quell’influenza si riscontrarono a lungo nel fisico del tenore soprattutto per la facilità di odiose ricadute.
Un che di rocambolesco ebbe anche l’avvio del 1969, quando, alla Scala fu necessario interrompere la stagione appena avviata, per un parziale crollo dell’intonaco del soffitto della sala del Piermarini. Al momento di riaprire i battenti si pensò i mettere in piedi una sorta di spettacolo di riapertura: in cartellone era prevista una ripresa della Bohème con buoni cantanti di routine. La Freni e Pavarotti erano a Milano per iniziare le prove, sempre impegnative, della ripresa della Figlia del reggimento: per accrescere il prestigio dello spettacolo di riapertura vennero così dirottati sul capolavoro di Puccini.
Nel mese di maggio, sempre alla Scala si consumò per il tenore il debutto nel quattordicesimo ruolo: il Cavaliere des Grieux nella Manon di Jules Massenet, presentato nella versione ritmica italiana e con protagonista Mirella Freni. Sul podio salì Peter Maag che prese il posto di Georges Prêtre. Il direttore transalpino, infatti, piantò tutti in asso non appena si rese conto che solisti, comprimari e coro avevano preparato la versione italiana dell’opera, invece di quella francese da lui gradita.
Nel frattempo che alla Scala erano tutti impegnati a risolvere le beghe relative alla versione della Manon, i nostri due cantanti si concessero una breve divagazione, spostandosi rapidamente a Bologna per interpretare al Teatro Comunale una sontuosa edizione dei Puritani, la cui eco fece il giro del mondo.
Nel mese di luglio, Pavarotti registrò due opere per la RAI, al Foro Italico di Roma: i Puritani, sempre con la Freni, Bruscantini e Giaiotti, sotto la direzione di Riccardo Muti, e la Bohème in una splendida edizione firmata da Thomas Schippers, ancora con la Freni, Bruscantini e con Ghiuselev nel ruolo di Colline.
Fu in quest’occasione che nacquero alcuni dissapori fra Pavarotti e Muti che saranno fra i motivi all’origine della mancata andata in scena dell’opera di Bellini alla Scala un paio d’anni dopo.
Gli anni sessanta si chiusero con un’altra esecuzione da antologia. Fu l’inaugurazione della stagione all’Opera di Roma con I Lombardi alla Prima Crociata, diretti e concertati da autentico grande verdiano da Gianandrea Gavazzeni alla guida di un cast stellare: Renata Scotto, Ruggero Raimondi, Umberto Grilli, oltre, naturalmente, a Luciano Pavarotti nel ruolo di Oronte.
Nella prossima puntata passeremo in rassegna i favolosi anni settanta, che daranno vita al consolidamento di taluni titoli fra i più tipici della vocalità di Pavarotti, portandolo alla fama di Primo Tenore a livello internazionale. Alcuni di essi saranno, però, proprio in questo periodo, abbandonati per far posto ad altri che vieppiù andranno a farsi largo nel suo repertorio, determinando l’evoluzione vocale degli anni ottanta. Proprio questa trasformazione sarà oggetto del nostro prossimo incontro.
1. - continua
Antonio Colli
Luciano Pavarotti nel 1961 al suo debutto ne La Bohème