Era un amico, uno degli amici più cari che io abbia mai avuto.
Marcello Parducci era un uomo che stava soprattutto dietro le quinte, che faceva tutt’altro lavoro per campare e che si è occupato di musica solo per passione. Una passione così grande credo sia rara da trovare e ha fatto si che lui, né musicista né musicologo, abbia approcciato la musica con grande umiltà e altrettanta curiosità.
Anche se il suo nome è poco noto a moltissimi frequentatori delle sale da concerto, credo che siano davvero pochi i concertisti italiani, e mi tengo stretta nei confini del nostro Paese, che non sappiano chi sia stato “il Parducci”.
Era nato nel 1940. Nelle famiglie di allora il rapporto con la musica era diverso, almeno le arie d’opera più importanti le conoscevano tutti e così era in casa di Marcello, che viveva in campagna con i parenti, fattori in una tenuta. In quella fattoria c’era “la signora Luisa”, moglie del proprietario, nobile napoletana, studi eccellenti e grande classe, che scoperta la passione di quel bimbetto per la musica gli dette l’accesso al giradischi della villa e lo chiamava quando trasmettevano i concerti per radio: “Vieni Marcello che stasera suona Benedetti Michelangeli”, mi raccontava.
Il suo grande amore era l’opera lirica e si dedicò con la sua solita passione a quella sorta di avventurosa ricostruzione del festival dedicato a Puccini avvenuta nel 1970, quando insieme con Ducci, Gemignani e Spadaccini decisero di far sì che la manifestazione diventasse annuale.
I ricordi e gli aneddoti di quel periodo sono impagabili; il lavoro di Marcello lo portava a viaggiare per tutta Italia e gli permetteva, alla sera, di frequentare i teatri: ascoltava i cantanti e li proponeva a Torre del Lago; mi diceva che il calendario della stagione veniva fatto a casa sua, dopo il lavoro, tra un piatto di pastasciutta e una bottiglia di vino per passare la nottata.
Un suo dono, che poi lo ha portato a costruire la stagione cameristica di Pieve a Elici, era quello di stabilire un forte rapporto personale con gli artisti; moltissimi di loro li chiamava “amici” e ho riscontrato, nel tempo, la verità di questo termine.
È anche grazie a lui, e a questa sua capacità, se negli anni ’70 abbiamo potuto ascoltare nomi eccellenti sulle panche del teatro sul lago (fatto di tubi Innocenti; alla fine si smontava tutto e “ciao” fino all’anno dopo).
Un esempio su tutti: i due cast di una Bohème nello stesso 1975 avevano come protagonisti Scotto - Pavarotti e Ricciarelli - Carreras.
Marcello respirava l’opera, era un grande appassionato di voci, adorava Corelli e rammentava quando, proprio a Torre del Lago, lo dovette spingere sul palco letteralmente a forza perché aveva paura di entrare e cantare Rodolfo. Fu l’addio alle scene del celebre tenore; il pubblico (io c’ero) rumoreggiava pesantemente dopo un’ora di ritardo: “Corelli non voleva cantare, pallido come un morto, la Tebaldi [presente] rideva e la Loretta [la moglie] piangeva”, così raccontava Marcello che alla fine andò dalla Maliponte, che faceva Mimì, a prendere il “cestino dei trucchi” e cominciò lui stesso a spennellarlo di fondotinta. La cosa scosse Corelli che mormorò: “Faccio da solo”. Gli cucirono addosso il costume e il Parducci lo buttò sul palco; rammentava che il tenore non cantò le prime battute dell’opera e al posto suo lo fece Angelo Romero, sulla scena con lui.
Una volta gli chiesi, curiosissima, come fossero la Katia e Carreras (li vidi sul palco e, appena diciottenne, immaginai faccende al calor bianco) e lui: “Erano bravi, erano belli, erano giovani ed erano innamorati; credo basti dire così”.
Era una miniera di racconti, Marcello. E si appassionava nell’arrivare alla storia più recente, a quando nel 1988, quasi digiuno di musica cameristica, accettò “su richiesta del prete” di riorganizzare una piccola stagione di concerti nella chiesa romanica di Pieve a Elici; un posto dalla bellezza struggente, un balcone tra colline di ulivi che guarda il lago e il mare.
Qui entrarono in gioco la capacità organizzativa dell’uomo che non aveva mai perso di vista un’attività lavorativa che nulla aveva a che fare con la musica, e la capacità conquistata sul campo del Pucciniano dello stringere forti contatti con gli artisti.
Le stagioni di Pieve a Elici divennero in breve un ambito palcoscenico su cui si sono succeduti pressoché tutti i nomi più importanti del mondo cameristico. Non farò esempi, non è facile citarli tutti e citarne alcuni farebbe un torto agli altri.
Marcello diceva che per avvicinarsi alla musica da camera cominciò ad ascoltare tanto. Ascoltava la musica ma soprattutto chi ne sapeva più di lui, sempre con umiltà: dote che lo ha contraddistinto e accompagnato per tutta la vita. Una volta mi disse che ascoltare in silenzio chi conosce un argomento del quale sai poco, ti permette di imparare e di non sentirti mai fuori luogo in qualsiasi ambiente frequenti: cerco sempre di attuare il suo consiglio.
Dopo aver preso in carico il piccolo festival alla Pieve, capì che per farlo crescere aveva bisogno di una struttura più forte e nacque la collaborazione con l’importante Associazione Musicale Lucchese, di cui è stato presidente dal 1998 al 2016.
Con lui, ma non solo per lui, anche l’Associazione è cresciuta negli anni con stagioni concertistiche invernali eccellenti e tante iniziative fino “all’invenzione”, nel 2015, del Lucca Classica Music Festival dove per quattro, cinque giorni il centro cittadino viene letteralmente invaso dalla musica ospitata nei cortili, nelle sale dei palazzi aperti per l’occasione, nei giardini.
Credo che l’eredità di Marcello Parducci si trovi nell’esempio di come un ragazzo che aveva cominciato a lavorare a 16 anni facendo il battilastra in un cantiere navale di Viareggio e che non aveva mai “studiato musica”, sia riuscito a realizzare obiettivi difficili per chiunque e, all’inizio, inimmaginabili per lui, solo in virtù di una passione prepotente.
Marcello se n’è andato il 18 aprile, quattro giorni prima del suo ottantaquattresimo compleanno. L’abbiamo salutato a Pieve a Elici con una cerimonia che gli sarebbe piaciuta; la sua famiglia (tanto importante), gli amici, la musica di un violino e fuori un pomeriggio limpidissimo, soleggiato e ventoso: pareva che fosse stata apparecchiata una scenografia incredibile proprio per salutarlo.
Sit tibi terra levis, amico mio.
Marilisa Lazzari