Per ragioni anagrafiche – la sua ultima comparsa sul podio della Scala avvenne quando avevo sei anni – non ho mai sentito dirigere dal vivo Toscanini (Parma, Oltretorrente, 25 marzo 1867 – New York, Riverdale, 16 gennaio 1957) – ma per le stesse ragioni ne sentii parlare moltissimo in famiglia quand’ero piccolo e a sue registrazioni devo non solo la prima conoscenza della Cavalcata delle Valchirie e della Marcia Rakóczy (travolgenti in un 45 giri extended play), dell’Aida del Ballo in Maschera e della Traviata in un album diffuso da Selezione del Reader’s Digest, ma anche (cosa che oggi farà rabbrividire i più…) delle nove Sinfonie di Beethoven nei long playing della RCA con copertine michelangiolesche e botticelliane. I racconti famigliari spaziavano dalle proverbiali virtù di sopportazione di sua moglie Carla, con la quale mia nonna s’era trovata a collaborare durante la Grande Guerra in non so piú quale comitato d’assistenza, alle sue proverbiali ire nelle prove alla Scala e alla fortuna che ebbero i miei genitori di potersi intrufolare l’11 maggio 1946 sul palcoscenico del teatro ricostruito (ero nato da trentanove giorni). Pochi anni fa mia mamma si riconobbe, con la lente, ai margini del coro, in una delle celebri foto dell’evento, e mi disse piú volte dell’entusiasmo irrefrenabile che quella memorabile serata portò quasi tutto il teatro a cantare «Va’ pensiero» insieme agli addetti, senza che il Maestro se ne infastidisse. Poi, sebbene insistentemente invitato, non diresse più uno spettacolo d’opera né alla Scala né altrove, e il suo congedo dalla buca del teatro alla cui leggendaria fama aveva contribuito più di chiunque altro resta la Manon Lescaut del 12 maggio 1929 (a cui seguirono però, subito dopo, otto spettacoli in tournée tra Vienna e Berlino). Ritornò invece alla testa dell’orchestra scaligera nel giugno 1950 con il Te Deum e il Requiem di Verdi (Tebaldi, Elmo, Prandelli, Siepi), fino all’addio definitivo del 19 settembre 1952 con un concerto wagneriano.
Negli anni Cinquanta e Sessanta i dischi erano ancora notevolmente cari e non era comune, specie per un quindicenne, possedere registrazioni diverse dello stesso pezzo. Credo che il primo caso che mi riguardò sia stato quello della Quarta di Mendelssohn, l’Italiana, che insieme alla Riforma costituiva un 33 giri toscaniniano della RCA, ma anche riempiva la quarta facciata di un album economico di due dischi con la Seconda e la Quarta di Brahms, tutt’e tre dirette da onesti Kapellmeister della provincia germanica. A quelle due Italiane devo la prima esperienza, nettissima e incancellabile, di che cosa faccia o non faccia un direttore d’orchestra. Da una parte il fluire piuttosto monotono e indistinto delle note della partitura, quasi senza configurazione degli episodi e risalto di melodie, dall’altra un travolgente succedersi d’accenti, di colori, d’interventi strumentali di rilievo solistico, che creano una pulsione inarrestabile e portano ogni nuovo episodio ad apparire inevitabile conseguenza di quel che l’aveva preceduto: capacità di far presentire la musica che seguirà in quella che sta risonando al momento. La prima delle sinfonie di Beethoven che conobbi era stata la Settima, “ovviamente” nel disco RCA diretto da lui. Fu un imprinting decisivo, per taluni aspetti fuorviante, per la rapidità di tempi incredibile e il piglio a dir poco melodrammatico, con l’incredibile tensione accumulata nell’ultimo movimento dal pedale dei contrabbassi in così anomalo risalto: un imprinting che mi costò caro come incapacità d’apprezzare le altre esecuzioni in cui via via m’imbattevo, finché fu contraddetto dall’altra registrazione toscaniniana con la New York Philharmonic, comparsa decenni dopo ma risalente all’anteguerra: piú equilibrata, piú composta in un classicismo comunque vibrante. Intanto v’era stato, nel giugno del 1967, un importante convegno a Firenze per il centenario della nascita e decennale della scomparsa, coordinato da Fedele D’Amico nell’ambito del trentesimo Maggio Musicale. Tre anni dopo Vallecchi ne pubblicò gli Atti, tra i quali lessi un’analisi accurata, dovuta al musicologo ungherese Ernő Lendvai, sulle registrazioni toscaniniane proprio della Settima, con i loro caratteri d’originalità e persino d’arbitrio, ma di grande presa emotiva. Altra sinfonia beethoveniana la cui registrazione di Toscanini continua a colpirmi è l’Ottava, con le accensioni drammatiche del primo tempo e il rutilante “corale di Hunyady” nell’ultimo, quasi a dialogo con lo sfrenato Berlioz che ho già ricordato (nel 1902-03 aveva diretto ventiquattro volte l’adattamento scenico della Dannazione di Faust realizzato dal Raoul Gunsbourg)
Il primo passo della carriera direttoriale, il 25 giugno del 1886 a Rio de Janeiro per un salvataggio “alla disperata”, assunse presto un significato mitico, sebbene eventi del genere non fossero allora così rari (penso ad esempio al non meno rocambolesco esordio di Marinuzzi). Meno diffusa, invece, è l’informazione che, pochi mesi dopo, il non ancora ventenne violoncellista Arturo fu il “secondo” alla creazione dell’Otello verdiano, beccandosi, si narra, una sgridata dell’onnipresente Autore che a un certo punto avrebbe detto seccato: “non sento il secondo violoncello”. Il ragazzo non si perse d’animo e rispose “Maestro, qui c’è scritto che devo sonare quattro p”, ma non aveva fatto i conti con il “realismo” verdiano: “se di p ne avessi messi due soli m’avreste sonato mezzo forte”… Una dozzina d’anni dopo l’ex-violoncellista pignolo aveva ormai diretto le prime assolute di Pagliacci e di Bohème e, arrivato stabilmente alla Scala (dopo i quattro concerti che vi aveva diretto nella primavera del ’96), si rivolse a Verdi per informazioni sui tre Pezzi sacri che avrebbe diretto in apertura della stagione sinfonica. Non gli erano mancati anni di dura gavetta, di cui sono testimonianza le lettere: tra tutti gli episodi ricordo un Ballo in maschera a Trento, in cui protestò tenore, soprano e baritono, salvo poi trovarsi il nuovo Riccardo che non aveva mai visto la parte…
Alla Scala “regnò” in varie tornate, la prima da Santo Stefano del 1898 fino alla clamorosa rottura del 14 aprile 1903 a causa dell’insistenza con cui il pubblico richiedeva un bis al tenore Zenatello. Come s’usava allora, doveva dirigere tutte le opere, sei o sette per stagione, per tutte le cinquanta o sessanta serate complessive. “Programmatico” era stato l’esordio, con i Maestri cantori (ovviamente nella revisione che Giulio Ricordi aveva commissionato un decennio prima a Puccini), ma sorprendente, dopo una stagione senza Verdi, fu la riesumazione, nel 1902, del Trovatore, opera allora considerata d’un passatismo desueto, da riservarsi ai maltrattamenti dei teatri di provincia e che alla Scala mancava da diciannove stagioni dopo il disastro della recita a inizio 1883. Toscanini, affrontandola con il rigore allora riservato alle opere più recenti, diede inizio a quella pratica di maggiore rispetto dei testi “popolari” di Verdi che s’imporrà definitivamente nella seconda metà del secolo scorso, grazie in particolare a Maria Callas e Riccardo Muti. Seguirà l’anno successivo, ovviamente con minor fortuna, Luisa Miller. Dopo l’abbandono del 1903 (ma l’assenza era stata interrotta da due stagioni sinfoniche), Toscanini, ottenuto il divieto dei bis e la realizzazione della fossa orchestrale, ritornerà alla Scala a dicembre 1906 con la Carmen, dirigendo, ancora “in esclusiva”, altri quattordici titoli fino all’aprile 1908, quando fu invitato da Gatti Casazza ad assumere la direzione musicale del Metropolitan. Ventisei volte, nelle due stagioni, fu sul podio della Scala per la Gioconda, sedici per Salome (con la nota polemica per la generale aperta con cui “soffiò” la primazìa italiana a Torino e all’Autore) e per Cristoforo Colombo di Franchetti; quattordici volte diresse Carmen e tredici Tosca, dodici il Crepuscolo e dieci il Tristano. Non tutto, del resto, doveva sempre filare liscio, come lascia intuire la presenza di una serata senza séguito per la Forza del destino (titolo a cui il Maestro ritornerà, alla Scala, solo per le tredici repliche di fine 1928). L’interesse per la contemporaneità europea fu confermato dalla prima italiana di Pelleas e Melisanda.
Durante gli anni al Metropolitan, il cui episodio più celebre resta forse la prima assoluta della Fanciulla del West e in cui ebbe tra gli artisti stabili Enrico Caruso, fu significativa, nell’ottobre del 1913, la ricomparsa alla guida dei complessi scaligeri per il Requiem e il Falstaff in occasione del centenario della nascita di Verdi. Dopo la lunga e devastante vicenda della Grande Guerra, il riavvicinamento alla Scala avvenne con il Mefistofele di poco successivo alla scomparsa di Boito: nove rappresentazioni nel novembre-dicembre 1918, prima della sospensione dell’attività operistica del teatro per quasi tre anni, durante i quali la futura nuova collaborazione con l’istituzione milanese si profilò nella grande tournée dell’autunno-inverno 1920-21. Dopo aver toccato dieci città italiane, da Brescia per Fiume contesa sino a Napoli, il Maestro s’imbarcò per New York con quella che, denominata in origine “Orchestra Toscanini”, divenne presto “Orchestra della Scala”, dirigendo concerti in venti città statunitensi e canadesi, e registrandone in parte i programmi. Il teatro milanese, abbandonato il sistema impresariale ormai insostenibile, fu ricostituito come primo “Ente Autonomo” italiano, emanazione del Comune con il sostegno dello Stato. Con ampi lavori iniziati nell’agosto del 1920, sala e palcoscenico assunsero le caratteristiche che manterranno, attraverso la ricostruzione postbellica, fino alla chiusura nel gennaio 2002 (altri grandi interventi modificheranno invece, negli anni Trenta, le sale del ridotto). Sul cartellone e su tutte le locandine della prima stagione, inauguratasi con Falstaff a Santo Stefano del 1921, si legge «Ragioni d’ordine e d’arte hanno indotto la Direzione a vietare le repliche dei pezzi durante la rappresentazione»; ricordo l’avviso in forma leggermente diversa, come “invito al pubblico a uniformarsi alle disposizioni” in vigore, e l’uso nuovamente inderogabile anche decenni dopo la scomparsa di chi lo aveva fermamente voluto.
Le otto stagioni scaligere dal 1921-22 al 1928-29 denotano un’impostazione ormai molto vicina a quelle attuali: a Toscanini s’alternano in buca altri direttori, da Panizza e Guarnieri a Gui, Santini e Votto (immediatamente assunto dopo che era stato sentito accompagnare al pianoforte una cantante in prova…), per tacere di nomi particolari come quelli di Stravinskij e Mascagni; anche più variate, e molto aperte, le presenze sul podio dei concerti sinfonici. Il numero di titoli per stagione si dilata dalle poche unità di fine e inizio secolo fino ai trentadue della stagione 1927-28. Toscanini, che già nella primavera del 1922 ha ripreso gli amatissimi Maestri cantori, dirige di tutto: dal Flauto magico a novità assolute come Nerone e Turandot, da Fidelio a Boris Godunov, dal Don Carlo riproposto per la prima volta nella versione in cinque atti, ad Arianna e Barbableu di Paul Dukas. Colpiscono ancora, rispetto a vent’anni prima, la presenza molto più consistente di Verdi e l’anticipo dell’apertura della stagione, a novembre, pur restando fisso e rilevante, salvo poche accidentali eccezioni, il tradizionale appuntamento di Santo Stefano.
Dopo la separazione dalla Scala a fine maggio 1929, la carriera di Toscanini, ormai più che sessantenne, si svolgerà prevalentemente (e totalmente dopo l’episodio del 1932 a Bologna) fuori d’Italia e gli impegni in buca saranno drasticamente limitati a favore dell’attività sinfonica, culminata forse nei cicli brahmsiani di Londra. Negli Stati Uniti, dove, non senza qualche contraddizione storica, Toscanini assurgerà dopo il 1941 a patriarca di un’ipotetica trinità culturale antifascista comprendente anche Bruno Walter e Thomas Mann, la grande emittente radiofonica NBC gli costituirà un’orchestra ad personam; con questa saranno effettuate, nel dopoguerra e fino ai primi del 1954, la stragrande maggioranza delle sue registrazioni che ne trasmetteranno alle generazioni successive le caratteristiche e gl’indubbi pregi, talvolta sbandierati come difetti. Esecuzioni come quella del Ballo in maschera restano comunque ammiratissime, mentre, ad esempio, la Bohème è diventata oggetto «d’inestinguibil odio e d’indomato amor»: di certo non si può immaginare nulla di più lontano dai languori sentimentali che di solito s’attribuiscono a Puccini (che, personalmente, rimase ammiratissimo della ripresa scaligera della Manon Lescaut nel dicembre 1922, purtroppo muta per noi).
Fil rouge dell’intera sua attività musicale rimane probabilmente Wagner, dai quei primi Maestri cantori, Sigfrido, Lohengrin, Tristano e Valchiria a cavallo tra Otto e Novecento (tra tutti sessantadue recite in cinque stagioni, alle quali s’aggiunsero due esecuzioni di preludio e terz’atto del Parsifal in forma d’oratorio) fino alle direzioni a Bayreuth nel 1930 e 1931 (Tannhäuser, Tristan, Parsifal), per le quali sembra rinunziasse all’onorario, e fino all’abbandono definitivo del podio nell’aprile del 1954 dopo un’Ouverture e Baccanale che aveva visto il Maestro ottantasettenne interrompersi per la prima e ultima volta nella sua carriera. E proprio a Bayreuth resta legata una delle smentite della velocità quasi maniacale dei tempi toscaniniani: suo risulta essere, infatti, il Parsifal piú lento della storia del Festival: il primo atto del 1931, penultima ripresa della messinscena originale, durò quasi mezz’ora più che con Boulez nel 1966 (particolarmente lenta, d’altra parte, è anche la Marcia funebre dell’Eroica nella registrazione RCA). Ma com’era il Wagner “di” Toscanini, almeno quello precedente al “bagno bayreuthiano”? Purtroppo, smarrite “inspiegabilmente” le registrazioni già allora di routine sul Grüner Hügel, la sua unica completa di un’opera di Wagner, anzi l’unico suo Wagner con le parti vocali resta quella dei Meistersinger salisburghesi del 1937, acusticamente molto precaria ma di straordinario e vivacissimo piglio drammatico. Mi permetto d’aggiungere quindi altri due ricordi personali: nel suo corso monografico del 1970-71 su Mahler, ancora poco conosciuto tra noi, Guglielmo Barblan parlava alla Statale di Milano della “brutalità” con la quale Toscanini, giunto alla fine del 1908 a New York, vi avrebbe imposto il “suo” Tristano, italianizzato con abbondanti tagli, in esplicita antitesi a quello “del” collega che l’aveva preceduto e del quale non prese mai in considerazione la grandezza di compositore. Nello stesso inverno ebbi occasione di conoscere il mezzosoprano Angelica Cravcenco, allora già molto avanti negli anni, che delle compagnie di canto scaligere fu a lungo una delle grandi comprimarie, da Quickly all’Ostessa, dalla Strega Marzapane a Lena. Le devo il gustoso racconto di quel che era successo alla fine del 1928 durante al seconda recita dei Maestri cantori, quando la giovanissima Mafalda Favero, imbaldanzita dal grande successo, si volle portare, per maggiore fascino scenico, in una posizione dalla quale perse un importante attacco: facilmente immaginabili le pepatissime insolenze rifilate da Toscanini alla ragazza durante il tempestoso intervallo che seguì… Ma devo alla Cravcenco anche un flash che solo molti anni dopo seppi apprezzare esattamente: durante le prove della Tetralogia che Siegfried Wagner avrebbe diretto nel marzo del 1930, la cantante, che da buona russa masticava una quantità di idiomi, fu reputata la persona più idonea per rivolgere al figlio dell’Autore le parole “Maestro, wann werden wir zu schnuren beginnen?” (ossia: “quando cominceremo finalmente a tagliare?”). La reazione di Siegfried fu tanto sdegnata quanto sorpresi furono gli artisti della Scala avvezzi al Wagner evidentemente abbreviato degli anni di Toscanini (anche se questi aveva lasciato la bacchetta a Hector Panizza per la prima Tetralogia milanese, nel gennaio-febbraio del 1928).
Nel gennaio del 1957 la notizia della sua scomparsa, in età per allora tardissima, fu vissuta a Milano come un lutto nazionale e chi scrive queste righe, allora in prima media, dovette persino svolgere a casa un “temino” sulla sua figura…
Vittorio Mascherpa