L’8 aprile 1921 nasceva ad Ancona uno dei massimi tenori del ‘900: Franco Corelli.
Premessa
“Il buon tempo antico? Tutti i tempi, quando sono antichi, sono buoni”. Queste parole di George Gordon Byron sono la quintessenza del bellissimo film di Woody Allen, “Midnight in Paris”. Anche la storia dell’arte canora è sempre stata, come notò argutamente un critico, una storia di rimpianti per le ugole del passato e di sconsolata commiserazione per la decadenza vocale del presente. Un atteggiamento, quello del “laudator temporis acti”, presente già ai tempi del compositore Pier Francesco Tosi che nel 1723 scriveva disperato: “L’Italia non sente più le voci dei tempi andati!”.
Ciò non toglie, però, che ciclicamente, e in alcuni periodi particolari, si sono realmente affermate delle voci eccezionali che rimangono pietre miliari nella storia dell’interpretazione. E Franco Corelli rientra a pieno diritto in questa categoria, anche se, come è pure accaduto per Mario Del Monaco, una parte della critica ha tentato di ridimensionarne la sua eccezionalità. Critica coeva, ma anche recente, che tende a non dare la giusta centralità nel teatro d’opera al fattore vocale in sé privilegiando, pure legittimamente, una concezione unitaria della rappresentazione dove la voce diventa “solo” uno degli elementi.
É ovvio che l’ideale è la fusione omogenea di voce, stile, musica e allestimento, come d’altronde nei tanto vituperati anni ’50 e ’60 del secolo scorso è accaduto non così raramente come spesso si pensa, ma io credo che anche a fronte di esecuzioni orchestrali impeccabili e di regie fantastiche, non si possa passare sopra a voci forse stilisticamente adeguate ma francamente brutte come timbro, ingolate e con acuti sforzati. In una parola, prive di quella perfetta tecnica di canto che permetteva ad alcune di esse, e non solo quelle famose, di affrontare senza remore le più impervie partiture e di infiammare le platee di tutto il mondo.
Considerazioni generali
Quella di Corelli era una voce scura, possente, con un registro acuto eccezionale, che riusciva però a piegarsi a filature e smorzature degne dei più grandi tenori di grazia. Il timbro non era particolarmente attraente, ma aveva una patina di virile malinconia che si sposava perfettamente ai ruoli più romantici e a quelli della produzione verista. Non a caso Giancarlo Landini ha felicemente definito il tenore anconetano come l’ultimo erede dei cosiddetti “tenori espada”, di cui dette «una versione moderna, riveduta e corretta, capace di collegarsi alla tradizione ma di offrire una versione rinnovata e aggiornata della tradizione stessa». Il cammino percorso da Corelli per arrivare a quella perfezione che inseguiva tenacemente, e che gli provocava dei veri turbamenti psicologici ogni volta prima di una recita, è stato fatto per tappe progressive. Dal debutto del 1951 fino alla fine del decennio, la voce presentava in qualche occasione un fastidioso vibrato, aveva risonanze baritonali piuttosto accentuate e gli acuti, per quanto voluminosi, non avevano ancora quello squillo perentorio che sarebbe poi diventato uno dei suoi punti di forza. Problemi vocali risolti con l’incessante studio, che continuò con grande scrupolo quando già era diventato famoso, soprattutto grazie all’incontro con Giacomo Lauri Volpi che lo invitò più volte, a partire dal 1959, a trascorrere lunghi soggiorni estivi nella sua residenza spagnola di Valencia. E anche grazie ai “consigli” di cotanto maestro che Corelli sistemò definitivamente il passaggio di registro e gli acuti. Non eliminò mai, invece, quei portamenti ascendenti che, sebbene di grande effetto sul pubblico, stilisticamente risultavano spesso inappropriati. Così come rimasero sino alla fine una musicalità non irreprensibile, e la tendenza, se non incontrava un direttore capace di contenerlo, ad abusare di quegli atletismi vocali (come il tenere a lungo gli acuti e i filati) capaci di far esplodere i loggionisti ma che rimanevano così solo una sfarzosa esibizione di bravura tecnica.
Un’ultima considerazione. Anche grazie ad un’avvenenza fisica notevolissima, Corelli sembrava quasi una star del cinema, un mix fra Errol Flynn e Rock Hudson. E se non raggiunse i vertici “attoriali” di Mario Del Monaco, la “verità” scenica dei suoi personaggi era comunque formidabile.
La carriera
I due teatri ai quali rimane indissolubilmente legato il suo mito sono la Scala e il Metropolitan, senza però dimenticare l’Arena di Verona. Nel tempio scaligero cantò per un decennio con ben sei inaugurazioni; a New York invece fu acclamato protagonista per 15 stagioni dal 1961 al 1975. Le sue innumerevoli presenze a Verona iniziano nel 1955 e finiscono nel 1975, di fatto l’ultimo vero anno di attività di Corelli. Soprattutto nella prima parte della carriera calcò spesso i palcoscenici dell’Opera di Roma e di Caracalla, del San Carlo e del Regio di Parma, teatro a cui riservò i suoi sporadici ritorni italiani dall’America. Significative ma non frequenti le performance a Londra e Vienna. C’è da osservare preliminarmente che le vette artistiche più alte le raggiunse tra la fine degli anni ’50 e i primi ’60, soprattutto a Milano, mentre al Metropolitan, che lo fagocitò e lo fece entrare appieno nel sistema delle star system, si accontentò di una routine di alto livello con qualche sporadica, e peraltro discussa, eccezione.
Il debutto assoluto risale al 26 agosto 1951 al Teatro Nuovo di Spoleto in Carmen grazie alla vittoria del Concorso del Centro Lirico Sperimentale. Don José, Calaf e Andrea Chenier saranno i tre ruoli dove FC si è identificato totalmente lasciando una pietra miliare nella storia interpretativa. In quel debutto c’è già in nuce il grande tenore, con i pregi e i difetti che, acutamente, un critico severo come Giuseppe Pugliese mise in evidenza recensendo quello spettacolo su Il Gazzettino del 6 settembre 1951: «Una delle affermazioni migliori della presente stagione rimarrà senza dubbio il tenore Franco Corelli, il Don José di Carmen. Un dragone fisicamente su misura, atletico, una natura d’artista, una sensibilità musicale d’eccezione. La voce è d’una ricchezza rara, bella estesa, robusta e intensa. Il suo fraseggio, l’accento lirico o drammatico sono già da cantante maturo. La sua interpretazione è proceduta per gradi. Ma nessuno, sino al secondo atto, avrebbe creduto che questo giovane capace, nei successivi due, di esprimere il divenire drammatico del personaggio con così sicura, nativa esperienza, con tanta commossa e commovente umanità, con una penetrazione scenica da vero artista. E tale sarà, senza riserve, quando avrà imparato a controllare, a dosare meglio la voce e avrà corretto alcuni errori di “imposto” che comprimono talvolta l’emissione e la bellezza dei suoni».
Certo, l’opera si eseguiva ancora in italiano, e l’edizione originale francese si sarebbe imposta definitivamente solo molto tempo dopo. Sebbene l’abbia incisa due volte in francese (quella con Karajan del 1963 rimane per tanti aspetti insuperata) e affrontata anche in palcoscenico (con l’incredibile episodio di Firenze del 1968 dove cantò in italiano la “Romanza del fiore”), non c’è dubbio che la lingua preferita dal tenore fosse la nostra. Una scelta interpretativa che si rifà al filone “verista” elevandolo però e vette supreme artistiche. Senza entrare nel merito di questa interessantissima discussione, basti ricordare che prima Rodolfo Celletti e poi Giancarlo Landini hanno scritto parole definitive sulla bontà di questa scelta.
Ora ascoltiamo Corelli nella “Romanza del fiore” nell’esecuzione tratta dalla discutibile versione televisiva del 1956. Una prova eccellente, nonostante un contesto non adeguato: veemenza, squillo e morbidezza si alternano in una esecuzione ricca di colori e di nuance, governata da una tecnica che, sebbene ancora non del tutto perfetta, era già in grado di virtuosismi impeccabili, come ad esempio la smorzatura sul la bemolle acuto di “caro odor”
Franco Corelli - "aria del Fiore" - Carmen di G.Bizet
Gli anni della Scala
Dopo quelle recite iniziali a Spoleto, l’anno successivo la sua carriera prese l’abbrivio dall’Opera di Roma, e qui, nel 1953, debuttò come Pollione nella Norma accanto a Maria Callas, avviata già allora a diventare un mito, che fu sua partner in tante recite passate alla storia, ad iniziare dall’inaugurazione scaligera del 1954 con La Vestale di Spontini. Fu il primo dei sei Sant’Ambrogio. Un vero record se si pensa che in quegli stessi anni a Mario Del Monaco e Giuseppe Di Stefano ne toccarono tre a testa. In seguito, uno per Carlo Bergonzi, e due per Luciano Pavarotti. Solo Placido Domingo, in un arco temporale molto più lungo, ha superato Corelli con otto inaugurazioni.
La Vestalefu senza dubbio l’opera di maggior successo europeo del marchigiano Spontini, che nel 1807, anno della prima esecuzione parigina, era diventato dopo Giovanni Paisiello il compositore prediletto di Napoleone. Caduta successivamente un po’ nell’oblio, fu appunto “recuperata” nel 1954, ancora nella versione italiana, puntando sul binomio Callas-Visconti. Ma il giovane Corelli ne uscì a testa alta (c’è fortunatamente la registrazione live a testimoniarlo), e la parte di Licinio sembrava calzargli a pennello insistendo molto sulla zona centrale della voce. Il grande Eugenio Gara, recensendo lo spettacolo su il Candido del 19 dicembre 1954, fu buon profeta: «Abbiamo sentito un tenore nuovo per la Scala: il giovane Franco Corelli, che se non c’inganniamo ha tutta l’aria di volerci restare per un pezzo. Corelli ha le carte in regola, ossia una voce calda, piena, sostanziosa, e ciò che più conta, l’intima convinzione di quel che fa, il sicuro rapporto fra suono, gesto e parola. Per di più è un bel ragazzo, alto e atletico, e sta in scena con vera (non tenorile) baldanza. È piaciuto subito».
Franco Corelli - "Ohimè! quale apparato!" - La Vestale di G.Spontini
registrazione del 1954 - Teatro alla Scala - direttore Antonino Votto
La successiva inaugurazione fu quella del 1960 con il Poliuto di Donizetti e con partner ancora la Callas. La terza nel 1961 con la desueta La battaglia di Legnano di Verdi in occasione del centesimo anniversario dell’Unità d’Italia; la quarta nel 1962 con Il trovatore; la quinta nel 1963 con Cavalleria rusticana per il centesimo genetliaco di Mascagni; ed infine nel 1964 con Turandot, le cui recite segnarono l’addio di Corelli alla Scala. E ascoltiamo proprio il live del “Nessun dorma” cantato in quell’occasione sotto la direzione di Gianandrea Gavazzeni. Al suo fianco in quelle recite la spettacolare Turandot di Birgit Nilsson.
Franco Corelli - "Nessun dorma" -Turandot di G.Puccini
registrazione del 1964 - Teatro alla Scala - direttore Gianandrea Gavazzeni
Il ruolo di Calaf, debuttato a Pisa il 12 aprile 1958 e affrontato l’ultima volta a Verona il 21 agosto 1975, è quello in cui Franco Corelli raggiunse in Puccini risultati storici tali da farlo diventare uno dei pochissimi interpreti di riferimento del ‘900 e degno erede di Lauri Volpi. La tessitura è infatti ideale per la sua voce, insistendo sia nel registro centrale che in quello acuto, che deve risultare squillante ed eroico come si addice ad un personaggio regale e fiabesco. A tutto questo si aggiunge una totale adesione al personaggio come fraseggio e presenza scenica.
Sempre alla Scala è stato in due occasioni un eccellente Dick Johnson nella Fanciulla del West. E un altro personaggio pucciniano a cui ha legato il suo nome è stato Mario Cavaradossi in Tosca, di cui esistono due documenti video, una registrazione in studio e numerosi live, fra i quali quello celebre di Parma del gennaio 1967, dove fa letteralmente esplodere il pubblico al termine di un “E lucevan le stelle” da fantavocalità sotto il profilo dell’emissione, dello squillo, della durata dei fiati, dei filati dolcissimi e della commossa partecipazione. Un’interpretazione che ha fatto storcere parecchio il naso ai puristi, e che rimane però come testimonianza di una teatralità forse non più adatta al gusto odierno ma sicuramente fenomenale.
Franco Corelli - "E lucevan le stelle" -Tosca di G.Puccini
registrazione del 1967 - Teatro Regio di Parma - direttore Giuseppe Morelli
Debuttato a Napoli nel 1957, Andrea Chenier è l’altro personaggio destinato a diventare eponimo di tutta la sua carriera. Alla Scala (dove nel 1956 aveva affrontato anche l’altro capolavoro di Giordano, Fedora, accanto alla Callas), lo cantò nel gennaio 1960 ma alla prima, per un’improvvisa indisposizione, fu eccezionalmente sostituito da Mario Del Monaco, che fino a quel momento era stato il poeta francese per antonomasia.
D’altronde una concisa espressione inglese ha definito Andrea Chenier“tenor opera”, vale a dire un’opera dove la parte del tenore è la più importante. Rispetto al celebre collega, che conferiva al ruolo una natura particolarmente virile e combattiva grazie alla nitidezza del fraseggio ed agli acuti smaglianti, Corelli non solo onorava altrettanto bene quei tratti, ma rendeva alla perfezione anche i momenti più malinconici del ruolo.
Ascoltiamolo nell’“Improvviso” eseguito durante un concerto del 1971 a Tokyo.
Franco Corelli - "Un dì all'azzurro spazio" - Andrea Chenier di U.Giordano
registrazione del 1971 - Tokio - direttore Alberto Ventura
Il capitolo Scala, pur inevitabilmente incompleto in questa disanima, non può sottacere due momenti memorabili nella storia di Corelli in quel Teatro: le recite del Pirata di Bellini e de Gli Ugonottidi Meyerbeer. I ruoli romantici di Gualtiero e di Raoul, scritti rispettivamente per Giovan Battisti Rubini e Adolphe Nourrit, trovarono in lui, sotto certi aspetti (la tessitura centrale e lo sfavillante registro acuto) l’interprete ideale per riproporli in chiave moderna. Certo, la sua voce non poteva essere più diversa dai due creatori del ruolo e certamente l’approccio stilistico era ancora ben lontano, almeno per le voci maschili, dal percorso benemerito del “Belcanto-Renaissance”. Senza entrare troppo nel merito della questione, i dati di fatto da cui partire sono comunque il successo enorme delle due rappresentazioni. Del Pirata, che andò in scena il 19 maggio 1958 con protagonista anche Maria Callas, non c’è purtroppo nessuna registrazione. Abbiamo però il ricordo di Rodolfo Celletti che sottolineò la dimensione enorme della voce del tenore anconetano: «Quando udii Corelli nel Pirata, la facilità e la strapotenza del settore alto mi stupirono. Non solo erano note sfolgoranti, ma davano un senso preciso all’espressione “voce che riempie un teatro”: un’espressione che, novantanove volte su cento, siamo soliti usare a vanvera».
Considerazioni che possono essere valide anche per Gli Ugonottiandati in scena il 28 maggio 1962 (in italiano e con tagli piuttosto drastici) con un cast eccezionale che, oltre a Corelli, comprendeva Joan Sutherland, Giulietta Simionato, Nicolaj Ghiaurov e Fiorenza Cossotto, direttore Gianandrea Gavazzeni. In questo caso disponiamo della registrazione live. In estrema sintesi, è assolutamente condivisibile il giudizio di Landini: «Il Raoul di Corelli è strepitoso, stupefacente, vocalmente fantastico, artisticamente soggiogante, ma stilisticamente sbagliato».
Franco Corelli - "Bianca al par di neve alpina" - Gli ugonotti di G.Meyerbeer
registrazione del 1962 - Teatro alla Scala - direttore Gianandrea Gavazzeni
Ruoli verdiani
Ovviamente anche il repertorio verdiano ha rappresentato una parte fondamentale della carriera di FC, con risultati sempre di ottimo livello, in qualche caso di levatura storica, in altri con esiti più disomogenei. Fra i primi ci sono sicuramenti i ruoli di Radames in Aidaed Ernani nell’opera omonima. Del primo ha messo ottimamente in rilevo sia gli aspetti eroici che quelli più inclini alle sfumature, riuscendo a smorzare mirabilmente il Si bemolle che chiude “Celeste Aida”, non solo nella pregevole incisione del 1966 con la Nilsson e Metha (non da tutti apprezzata) ma spesso anche dal vivo (con qualche isolato infortunio). Anche per il bandito Ernani aveva come temibile competitor Mario Del Monaco, che in questa parte ha offerto prove superlative sia vocalmente che stilisticamente. Con la sua travolgente interpretazione, Corelli non è da meno però nel delineare un personaggio del quale recupera appieno la dimensione romantica.
Approccio che nella parte di Manrico nel Trovatore gli permise di delineare una versione moderna dell’eroe romantico, con quella irresistibile e nobile malinconia che la sua voce irradiava. Poi si può discutere, come è stato fatto, se il timbro troppo scuro fosse adatto al personaggio, o se la sua interpretazione fosse più rivolta a mettere in evidenza la voce che il fraseggio. Certamente, però, il risultato che raggiungeva sul palcoscenico era di enorme fascino, come si può ascoltare anche nei numerosi live, su tutti quello tratto dall’inaugurazione scaligera del 1962. Corelli amava molto anche il ruolo dell’Infante nel Don Carlo, che eseguiva nella versione italiana in quattro atti. Non ha mai inciso l’opera in studio, ma pure in questo caso le registrazioni live ci restituiscono una miscela perfetta dell’impeto e dell’angoscia connaturati al principe.
Dove però il giudizio sulla levatura storica della sua interpretazione è pressocché unanime, è quello relativo alla parte di Alvaro ne La forza del destino. Ruolo che debuttò al San Carlo il 15 marzo 1958 in un’edizione che fortunatamente possiamo rivedere grazie allo spettacolo trasmesso dalla Rai. Certo, è in bianco e nero e, soprattutto, regia e allestimento, penalizzati oltremodo dalle riprese, ci fanno sorridere per quanto effettivamente oggi risultano improponibili. Ma a far tacere tutto è la parte musicale che riunisce, sotto la bacchetta di Francesco Molinari Pradelli, un cast veramente sontuoso con assoluti protagonisti anche Renata Tebaldi ed Ettore Bastianini.
Lascerei però la parola a Elvio Giudici, notoriamente mai troppo tenero con Franco Corelli, che rimarca intanto «la prestanza fisica notevole che si sposa a linee vocali di prestanza invece eccezionali: anch’esse divenendo accento quasi per virtù propria». E continua. «E comunque Corelli tiene sì gli acuti più quanto pare a lui di quanto previsto da Verdi. Indulge, qua e là, in certi colpi di glottide non proprio ortodossi…ma esibisce anche – basta ascoltare il recitativo e gran parte dell’aria – fior di mezzevoci timbratissime, rese ancor più affascinanti dal colore cupreo del timbro; nonché frasi sospese su piani di enorme suggestione, come nel duetto dell’ultimo atto con Carlo…E naturalmente, quando c’è da squillare, ascoltiamo un torrente di suono illuminarsi sempre di più sprizzando autentiche scintille…».
Ascoltiamo dunque la grande aria.
Franco Corelli - "La vita è inferno...Oh, tu che in seno agli angeli" - La forza del destino di G.Verdi
registrazione del 1958 - Teatro S.Carlo di Napoli - direttore Francesco Molinari Pradelli
Fra i grandi rimpianti lasciati da FC c’è quello di non aver affrontato neanche in disco l’Otello, che avrebbe però voluto cantare. Molte le ragioni, a iniziare dal timore dell’inevitabile confronto con il Moro per antonomasia, Mario Del Monaco. E certamente anche la prudenza, se non la paura, nell’affrontare un’opera considerata a buon diritto “scassavoci”. Eppure FC probabilmente sarebbe stato un Otello perfetto, perché avrebbe saputo coniugare gli aspetti eroici e drammatici della parte (quelli dove Del Monaco sbaragliava tutti) con quelli più prettamente lirici, gli unici in fondo ad essere privilegiati da Placido Domingo. Il suo Otello lo possiamo però immaginare dai due brani incisi: l’“Esultate” del 1954 e il duetto “Già nella notte densa” cantato con Tersa Zylis-Gara al met nel 1972.
Il suo “Esultate” non solo non ha nulla da invidiare a quello memorabile di MDM, ma se ne differenzia per una connotazione più umana e per certi aspetti più aristocratica.
Franco Corelli - "Esultate" - Otello di G.Verdi
registrazione del 1954
Conclusione: gli altri ruoli e gli anni americani
Non potendo esaminare dettagliatamente tutti i ruoli interpretati da FC, si devono almeno ricordare le eccellenti prove offerte come Pollione nella Norma, spesso accanto alla Callas con la quale registrò l’opera nel 1960; e come Canio nei Pagliacci, di cui possiamo ammirarne le qualità nel film girato dalla Rai nel 1954. Tre anni soltanto di carriera, ma in questa occasione i “difetti” che caratterizzavano la sua voce in quel periodo praticamente non si avvertono. In compenso abbiamo un Canio solidissimo, asciutto, con una dizione scolpita e con un fraseggio di grande intensità unito ad un’ammirevole prova scenica.
Franco Corelli - "Vesti la giubba" - Pagliacci di R.Leoncavallo
registrazione del 1954 - film RAI - direttore Alfredo Simonetto
Come si è detto prima, FC cedette, giustamente, alle reiterate pressioni di Mister Bing e debuttò al Metropolitan il 27 gennaio 1961 nel Trovatore. Da allora divenne a tutti gli effetti un divo americano, concentrandosi solo su pochi titoli incessantemente eseguiti. Sporadici i debutti, peraltro non memorabili se non addirittura in netto contrasto con la sua vocalità: Romeo et Juliette, Werther, Lucia di Lammermoor(l’unico ruolo di cui avrebbe potuto offrire una storica interpretazione rifacendosi al primo interprete, il tenore eroico Duprez). Rimane da spendere qualche parola in più sul Rodolfo pucciniano, che affrontò per la prima volta appunto al Met nel 1964. Per quando prediligesse Bohème, è indubbio che i panni di Rodolfo gli stavano troppo stretti, troppo “borghese” essendo il personaggio in cui non riusciva proprio ad immedesimarsi. Nonostante un canto sempre affascinante.
Ma fu proprio con quest’opera a dare l’addio alle scene con le infelici recite di Torre del Lago nel 1976. Aveva appena 55 anni i mezzi vocali erano ancora integri, pur con qualche inevitabile calo. Che, impercettibile o quasi al grande pubblico, non lo era per lui, e la consapevolezza di non poter mantenere sempre lo stesso livello di prima se non pagando il prezzo di ulteriori sforzi psicologici, gli fece maturare la decisione di ritirarsi prematuramente: «scrupoloso rispetto per la propria immagine e per il pubblico – scrisse Celletti – e tratto raro di nobiltà in un’epoca di imperversante cialtroneria».
Eraldo Martucci
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