Articolo dedicato a Rinaldo, pastiche assemblato per Napoli da Leonardo Leo su musiche di vari compositori, tra i quali Händel e lo stesso Leo, con saggio di Giovanni Andrea Sechi, che ha curato la revisione. Seguono intervista di Silvano Capecchi a Sechi e recensione a cura di Daniela Goldoni del CD registrato a Martina Franca, dove l'opera fu rappresentata in prima ripresa moderna, nel luglio dello scorso anno.
INDICE DEGLI ARGOMENTI
La ricostruzione del Rinaldo (Napoli 1718)
saggio a cura di Giovanni Andrea Sechi
Intervista a Giovanni Andrea Sechi
a cura di Silvano Capecchi
Recensione del cd del "Rinaldo" andato in scena lo scorso anno al Festival della Valle d'Itria e pubblicato dalla Dynamic
a cura di Daniela Goldoni
Nel 1711 il Rinaldo di Georg Friedrich Händel fu messo in scena per la prima volta a Londra. L’opera incontrò successo immediato, complice la presenza del castrato Nicola Grimaldi nel ruolo del titolo: ciò contribuì alla fama dell’opera e alla sua circolazione oltre i confini inglesi.
Nel 1718 Rinaldo arrivò a Napoli. L’opera non fu rappresentata nella medesima forma ascoltata a Londra: per essere messa in scena al Teatro di S. Bartolomeo essa fu adattata da un librettista ignoto e dal compositore Leonardo Leo. La compagnia di canto scritturata in quell’occasione includeva solisti dallo status leggendario, come Marianna Benti Bulgarelli e lo stesso Grimaldi: la loro prestazione coronò l’esito favorevole di quelle recite.
Cosa avvenne dopo? Nonostante il successo di questa versione del Rinaldo, la partitura andò dispersa. L’unica testimonianza giunta intatta fino a noi è il libretto a stampa (due testimoni: uno alla Biblioteca Universitaria di Bologna, l’altro alla Library of Congress di Washington).
Nel 2012 un ritrovamento alla Biblioteca di Longleat House (Inghilterra) infuse nuova speranza tra gli studiosi: nella biblioteca dei marchesi di Bath si rinvenne un volume miscellaneo di arie dal Rinaldo e da altre opere coeve.
Nel 2018 una meticolosa collazione di fonti, condotta dallo scrivente, portò all’identificazione di ulteriori porzioni del Rinaldo napoletano. Ciò rese possibile la ricostruzione della partitura, seppure in forma parziale. Una ricostruzione che è stata utilizzata per la messa in scena del Rinaldo nell’ambito della 44° edizione del Festival della Valle d’Itria.
Nell’aprile 2019, l’etichetta Dynamic offre una testimonianza di quell’evento, pubblicando il video in DVD e Blu-Ray.
In occasione di questa uscita discografica, cogliamo l’occasione per ripercorrere le tappe di questa riscoperta: la ricostruzione del Rinaldo napoletano. L’esposizione sarà preceduta da considerazioni sul genere del pasticcio (primo paragrafo), e sulle consuetudini nella librettistica napoletana del primo Settecento (secondo paragrafo).
Il Rinaldo napoletano: un “pasticcio” esemplare
La versione napoletana del Rinaldo era un pasticcio, o meglio un’opera impasticciata. Con questo termine si definisce una partitura composta da musiche approntate per l’occasione e da altre preesistenti. Tale terminologia, di vaga reminescenza goldoniana, fu coniata da Giovanni Polin in suo fortunato saggio (Le “opere che al dosso degli attor non son tagliate riescono per ordinario impasticciate”. Riflessioni sullo status del testo spettacolare melodrammatico nel Settecento, in Responsabilità d’autore e collaborazione nell’opera dell’Età barocca. Il Pasticcio, Laruffa Editore, Reggio Calabria, 2011).
Prima di parlare di “pasticci” è doveroso fare una premessa. Nel primo Settecento in ambito italiano convivevano sulle scene sia opere scritte ex novo, sia opere già sentite in passato; queste ultime venivano modificate ad hoc per ciascuna messa in scena. Ciò avveniva senza clamore, né sorprendeva il pubblico: raramente un’opera veniva rimessa in scena nella medesima forma, specie a distanza di tempo o in un’altra città.
Nella tabella seguente si mettano a confronto gli interpreti scritturati nel Rinaldo di Londra e in quello di Napoli (sono esclusi alcuni ruoli minori: Lo spirito in forma di donna, il Mago cristiano e l’Araldo).
|
Londra 1711 |
Napoli 1718 |
Rinaldo |
Nicola Grimaldi (contralto) |
Nicola Grimaldi (contralto) |
Armida |
Elisabetta Pilotti Schiavonetti (soprano) |
Marianna Benti Bulgarelli (soprano) |
Almirena |
Isabella Girardeau (soprano) |
Anna Vincenza Dotti (contralto) |
Argante |
Giuseppe Maria Boschi (basso) |
Giovanni Battista Minelli (contralto) |
Goffredo |
Francesca Vanini (contralto) |
Gaetano Borghi (tenore) |
Eustazio |
Valentino Urbani (contralto) |
Lucia Grimani (contralto) |
Come apparirà evidente dalla lettura della tabella, il mutare degli interpreti coinvolti erano motivo bastante per spingere gli organizzatori a modificare una partitura preesistente. Quando il compositore originale non poteva compiere il lavoro di revisione, allora il compito veniva affidato ad altri: ecco come si giungeva all’inserimento di brani di altri compositori (e così si giunse al coinvolgimento di Leo nel Rinaldo händeliano).
Non solo i librettisti e i compositori prendevano parte a questo processo di revisione. Spesso l’aggiunta di brani altrui avveniva per compiacere gli interpreti vocali; brani che talvolta prendevano il nome di arie di baule (quei “cavalli di battaglia” che i cantanti portavano con sé, anche per tutto il corso della loro carriera professionale).
Ecco, in estrema sintesi, come nasceva un pasticcio: dalla volontà di rendere conforme una partitura preesistente alle necessità esecutive contingenti.
Non v’è dubbio che i pasticci nascessero per esigenze pratiche; talora nascevano anche per motivazioni estetiche. Nel libretto di un pasticcio recentemente studiato da Paologiovanni Maione (si veda il volume già citato Responsabilità d’autore e collaborazione nell’opera dell’Età barocca. Il Pasticcio), la musica era spiritosamente definita «Na nzalata mmescata». In fondo i pasticci nascevano come una ricetta: dall’unione di tanti ingredienti diversi tra loro.
Volgendo lo sguardo al Nord Italia noteremo che fu così anche per i pasticci assemblati da Antonio Vivaldi: Bajazet (o Tamerlano), la versione del 1734 di Dorilla in Tempe, Teuzzone (anche se, sicuramente, anche in quelle occasioni non mancarono le contingenze pratiche che spinsero il compositore a preferire brani altrui laddove avrebbe potuto comporne altrettanti di proprio pugno).
In questa prospettiva possiamo dedurre che nel contesto italiano del XVIII secolo la giustapposizione di elementi stilisticamente disomogenei era motivo di compiacimento per il pubblico. Nei pasticci, la compresenza di pezzi di più compositori non ostacolava l’uditorio dell’epoca, bensì era motivo di stimolo.
Lavori multiautoriali come il Rinaldo celebrano la varietas e l’eclettismo, e il loro fascino risiede proprio nella complessità testuale. Una complessità che trae le sue radici dalle peculiarità del contesto teatrale napoletano.
Rinaldo e le consuetudini nella librettistica del primo Settecento
A un occhio attento non sfuggirà che nei libretti dei drammi per musica si possono ritrovare informazioni notevoli di carattere storico. Una comparazione tra libretti di una medesima epoca evidenzierà che le scelte del librettista erano influenzate da numerosi fattori: le consuetudini locali, le esigenze dei committenti, le aspettative del pubblico, le direttive impartite dal potere costituito. Nel caso delle opere rappresentate a Napoli nel primo Settecento possiamo notare i seguenti i tratti distintivi:
L’omaggio al monarca (specie nei titoli rappresentati in concomitanza del suo compleanno o del suo onomastico): ecco perché in tutte le opere partenopee dei primi decenni del Settecento troviamo un prologo encomiastico. Rinaldo fu rappresentato in occasione del compleanno dell’imperatore Carlo VI d’Asburgo. Nel prologo, oltre al motivo allude a un evento politico recente, ulteriore motivo per lodare Carlo: la pace di Passarowitz, stipulata il 21 luglio 1718. Nella prospettiva cattolica ed eurocentrica tale trattato significò un’ulteriore sconfitta dell’Impero Ottomano (ed ecco il parallelismo col Rinaldo, dove la fazione vincente è quella cristiana).
Una coppia di personaggi buffi, presenti sia nel dramma serio (dove svolgevano compiti ancillari), sia negli intermezzi comici (che riprendevano e parodiavano il contenuto del dramma). La convivenza di personaggi seri e comici era una peculiarità delle opere napoletane del primo Settecento: tra le scene degli intermezzi e quelle del dramma serio non c’era soluzione di continuità. Nel resto d’Italia le cose andavano diversamente: i cantanti dell’intermezzo non partecipavano alla messa in scena del dramma serio, né c’era alcun legame intertestuale tra dramma serio e intermezzo comico. Quando sulle scene napoletane si riprendeva un’opera proveniente da un’altra città, e perciò priva dei buffi, questi venivano aggiunti (e veniva composto l’intermezzo comico). Fu così che nel Rinaldo comparvero le parti di Lesbina (confidente di Armida) e Nesso (servo di Almirena).
Queste sono le differenze macroscopiche che distinguono il Rinaldo londinese da quello napoletano: una forte metafora politica (il prologo), e la commistione del genere serio e comico (la presenza dei due servi buffi).
Il nome del librettista revisore talvolta non veniva reso pubblico, e purtroppo quest’uso si riscontra anche nel libretto del Rinaldo. Chi lavorò a stretto contatto col compositore Leonardo Leo? È un peccato non conoscere l’identità di questo librettista: egli non si limitò ad adattare Rinaldo, bensì fece un lavoro molto più fino (compose gli intermezzi con inventiva, perfezionò i personaggi seri).
Il libretto: i personaggi
Passando da Londra a Napoli la trama del Rinaldo non subì sconvolgimenti. Mutarono, invece, i personaggi principali e le loro qualità:
Armida fu privata delle sue doti magiche (furono cassate le due scene della metamorfosi in Almirena, forse di difficile resa sulla scena). Tuttavia, il librettista le concesse un uso della parola da vera tragedienne. La maga divenne più umana: carismatica, persuasiva, seduttrice. Argante, essendo secondo uomo, fu privato di una certa spavalderia e fu riportato su un registro più amoroso. Da generale delle truppe pagane, Argante divenne un guerriero totalmente asservito ad Armida. Almirena, angelicata e inerte, si trasformò in una donna scaltra, spregiudicata, intraprendente. Cosa non avrebbe tentato per ottenere la libertà e corrompere il suo custode Argante? Da questo si spiega la gelosia del suo innamorato Rinaldo. Il condottiero cristiano Goffredo assunse toni più paterni e regali. Come già rilevato da Sabine Erhmann-Erfort nel suo saggio Il viaggio del Rinaldo di Händel (http://riviste.paviauniversitypress.it/index.php/phi/article/view/1141), nel prologo compariva un paragone tra il monarca asburgico e il regnante cristiano. Il personaggio della Vittoria invitava Goffredo a conquistare Gerusalemme seguendo l’esempio di Carlo VI: «Goffredo (…) che vincerà, se fia, che volga un guardo di Carlo a imitar l’alto valore»). Di conseguenza il poeta napoletano non poteva permettere che Goffredo venisse oltraggiato da altri personaggi. Ciò avrebbe offeso, avrebbe offeso seppur in maniera diretta anche Carlo VI. Perciò il verso «e a quel tiran richiesi», proferito da Argante, venne corretto («e a Goffredo richiesi»).
La prospettiva ideologica, rispetto alla versione di Londra, fu rafforzata: nella scena finale Armida viene incatenata e schernita dai cristiani; non paga degli insulti, ella accetta la condanna a morte con disprezzo. Per contro, nella scena analoga del libretto londinese, i cristiani erano più rispettosi dei prigionieri e tutto si risolveva in un lieto fine: Armida ed Argante si arrendevano e accettavano di buon grado di convertirsi al cristianesimo.
Alcune scene d’invenzione del librettista napoletano arricchirono sensibilmente l’intreccio. Ecco le più significative: prima delle scene buffe a conclusione dell’atto primo egli aggiunse una lunga scena di Armida e Rinaldo (Scena X: «Già per la mia grand’arte»). Una scena che anticipava il loro incontro: l’innamoramento di lei e il rifiuto di lui. Di conseguenza, si resero necessarie alcune modifiche nella scena dell’atto secondo dove originariamente avveniva il primo incontro trai due («Perfida, un core illustre»). Totalmente nuove ma col riutilizzo di materiale poetico londinese sono anche le scene X e XI dell’atto secondo. In queste assistiamo al tentativo di fuga di Almirena e Argante, che a loro volta si imbattono in Armida e Rinaldo e ciò genera ulteriori malintesi e conflitti (il sipario cala dopo lo splendido quartetto «Rendimi al caro sposo»).
Il libretto e la musica: guida alla ricognizione delle fonti musicali
Il libretto è un sussidio utile anche per risolvere questioni squisitamente musicali. Esso ci permette di quantificare l’entità dell’apporto musicale di Leo. Il tipografo Michele Luigi Muzio, come era usanza a Napoli, segnalò le porzioni di testo poste in musica dal nuovo compositore: il prologo, le scene buffe, gran parte dei recitativi e delle arie estranee alla versione londinese. Alcune porzioni di testo, estranee al testo londinese, non furono segnalate come opera di Leo: da chi furono poste in musica? Il libretto, da solo, non può rispondere a questo quesito; l’analisi delle fonti musicali, come vedremo più avanti, ci potrà essere d’aiuto.
La partitura del Rinaldo sopravvive solo in forma parziale: un manoscritto di provenienza napoletana, conservato a Longleat House trasmette 15 dei 32 pezzi chiusi che componevano l’opera. Tale manoscritto è adespoto, cioè non indica la paternità dei brani contenuti. Noto dal 2012, non è mai stato studiato a fondo: quattro brani di Händel sono riconoscibili a colpo d’occhio, mentre cinque brani di Leo sono riscontrabili con l’aiuto del libretto. Chi compose i restanti sei?
Per determinare la paternità di questi brani, e conoscere quali compositori presero parte al Rinaldo, ho condotto una ricerca sul repertorio degli interpreti (Bulgarelli, Dotti, Minelli, Borghi). Il confronto tra il loro repertorio e il libretto del Rinaldo mi rivelò che numerosi brani erano in realtà delle arie di baule. Le arie di baule venivano utilizzate mutando di volta in volta il testo poetico, ma non l’impianto metrico: per questo motivo sono riconoscibili anche col solo aiuto dei libretti. Seguendo il filo delle concordanze poetiche, fui perciò in grado di stabilire la paternità e la provenienza dei 6 brani anonimi di Longleat, nonché di ritrovare ulteriori brani dell’opera (oggi conservati in biblioteche di tutto il mondo: Bruxelles, Dresda, Parigi, Washington).
In seguito a tale ricerca possiamo perciò perciò confermare che il Rinaldo vide il contributo di numerosi operisti insigni: Antonio Maria Bononcini, Francesco Gasparini, Giuseppe Maria Orlandini, Giovanni Porta, Domenico Sarro e Antonio Vivaldi.
Nella tabella seguente si vedrà un prospetto dei 32 pezzi che componevano il Rinaldo, e la proposta di attribuzione avanzata dallo scrivente, sulla scorta delle fonti librettistiche e musicali.
Per colmare la lacuna di 6 brani perduti, nella partitura utilizzata al Festival della Valle d’Itria sono stati inseriti altrettanti brani coevi (qui segnati tra parentesi quadra).
Scena |
Personaggi |
Incipit |
Compositore |
I.1 |
Almirena |
|
Leo |
I.1 |
Rinaldo |
|
Händel |
I.2 |
Eustazio |
|
Autore ignoto [brano perduto, è sostituito da Sia speme o inganno] |
I.3 |
Argante |
|
Autore ignoto |
I.4 |
Goffredo |
|
Händel |
I.5 |
Armida |
|
Händel |
I.5 |
Argante |
|
Gasparini [brano perduto, è sostituito da Par che mi nasca in seno] |
I.5 |
Armida |
|
Orlandini |
I.6 |
Almirena Rinaldo |
|
Händel |
I.7 |
Rinaldo |
|
Händel |
I.8 |
Rinaldo |
|
Händel |
I.8 |
Rinaldo |
|
Händel |
I.9 |
Goffredo |
|
Porta |
10 |
Armida Rinaldo |
|
Leo |
II.1 |
Donna |
|
Händel |
II.2 |
Rinaldo |
|
Leo |
II.3 |
Goffredo |
|
Orlandini |
II.4 |
Eustazio |
|
Leo [brano perduto, è sostituito da Ho due compagni al cor] |
II.5 |
Almirena |
|
Autore ignoto [brano perduto, è sostituito da Amami pur, se vuoi] |
II.6 |
Argante |
|
Autore ignoto |
II.8 |
Armida Rinaldo |
|
Händel |
II.9 |
Armida |
|
Bononcini |
II.11 |
Almirena Argante Armida Rinaldo |
|
Leo |
III.4 |
Armida |
|
Leo [brano perduto, è sostituito da Vo’ far guerra e vincer voglio] |
III.5 |
Goffredo |
|
Porta |
III.6 |
Almirena |
|
Vivaldi |
III.7 |
Rinaldo |
|
Händel |
III.9 |
Almirena |
|
Sarro |
III.10 |
Rinaldo |
|
Händel |
III.12 |
Argante |
|
Orlandini |
III.16 |
Armida |
|
Leo |
III.16 |
Tutti |
|
Leo [brano perduto, è sostituito da Vinto è sol dalla virtù] |
La lettura della tabella dà adito ad alcune considerazioni.
Grimaldi (Rinaldo) fu il cantante più fedele al dettato händeliano: questo ci conferma che il Rinaldo fu ripreso a Napoli proprio per omaggiare Grimaldi, divo ritornato in patria e desideroso di ripresentarsi ai propri concittadini nel suo personaggio preferito.
Seppur di minima entità, anche la sua parte subì delle modifiche: Leo scrisse per lui una nuova aria («Al valor del braccio mio», in luogo dell’originale «Il tricerbero umiliato»), nonché due nuovi pezzi d’insieme («Rendi la cara sposa»; «Rendimi al caro sposo»). Grimaldi si fece carico anche di due ulteriori brani händeliani, sempre dal Rinaldo londinese.
La prima fu l’aria di Almirena «Lascia ch’io pianga» (qui con testo parodiato: «Lascia ch’io resti»). Per innestare questo brano il librettista napoletano creò una scena ad hoc (III, 7) che ne motivasse la presenza. Presumibilmente la celebre aria in tempo di sarabanda fu aggiunta con l’intento di riscuotere maggior successo: forse il castrato aveva il desiderio di compiacere il pubblico con arie cantabili e patetiche. Degna di essere menzionata è la trasformazione del testo poetico: nell’originale londinese, Almirena anelava alla libertà e si lagnava della sua prigionia; nel nuovo testo napoletano vediamo Rinaldo che chiede ad Amore di liberarlo dalle catene della gelosia. Catene immateriali, ma non per questo meno forti e indissolubili, stando all’immaginario poetico del primo uomo.
Londra 1711 |
Napoli 1718 |
Almirena:
Lascia ch’io pianga mia dura sorte e che sospiri la libertà. Il duol infranga queste ritorte de’ miei martiri sol per pietà. Lascia etc. |
Rinaldo:
Lascia, ch’io resti con la mia pace, e più non peni, pietoso Amor. Il duol che provo, troppo è vorace, né a tal martire basta il mio cor. Lascia etc. |
La seconda inserzione händeliana fu una sostituzione. Per evitare un brano non più comodo, «Venti turbini prestate», Grimaldi richiese un brano dal virtuosismo più contenuto: «Mio cor che mi sai dir?» (a Londra fu intonato da Goffredo).
Più parca fu l’adozione di musiche händeliane per la Benti Bulgarelli (Armida), celebre esempio di cantante-attrice, nota per essere stata la musa di Pietro Metastasio. Ella acconsentì a intonare due brani händeliani, l’aria «Furie terribili» (I, 5) e il duetto «Fermati! No, crudel!» (II, 8). Dal suo baule ella propose un’aria di Orlandini e una di Bononcini. L’analisi dei suoi brani rivela che ella prediligeva brani dall’andamento grazioso e brillante, incline a scolpire la parola cantata, più che a fiorirla. Le agilità erano quasi bandite dal suo repertorio: i melismi nell’aria «Un lampo di speranza» sono un’eccezione. Il talento di cantante-attrice della Benti Bulgarelli trova una conferma nell’uso dei recitativi accompagnati: il soprano decise di tenere il recitativo originale di Händel «Dunque i lacci d’un volto» (II, 9). Tuttavia sostituì il suo esito originale (la grande aria patetica «Ah! crudel, il pianto mio») con un’aria di carattere più mosso e drammatico («Già sento che al core»).
Minelli (Argante), castrato bolognese di rango, non intonò alcun brano di Händel, né si mostrò incline alle novità: prese parte solamente a un brano di Leo («Rendimi al caro sposo»). Per le sue arie egli fece ricorso in maniera massiccia al suo repertorio più recente. Dal punto di vista stilistico, le sue arie portarono un apporto consistente di operisti norditaliani (Gasparini, Orlandini).
La parte di Almirena presenta un certo equilibrio tra novità e arie di baule. L’interprete, Anna Vincenza Dotti, intonò un’aria composta da Leo per l’occasione («Vanne: pugna combatti ancor»); per il resto interpolò un brano di Vivaldi (dall’Incoronazione di Dario), uno di Sarro («Da te lungi o mio diletto», dall’Armida al campo), e uno di un compositore ignoto («Crudo ciel fra le catene»; perduta). Il contralto bolognese acconsentì a cantare due brani originali di Händel: l’aria «Augelletti che cantate» (probabilmente con qualche adattamento) e il duetto «Scherzano sul tuo volto» (abbassato di un tono e con qualche puntatura in basso, per evitare gli acuti estremi).
Borghi (Goffredo) cantò solo un brano di Händel (adattato dal registro di contralto a quello di tenore) e interpolò due brani già collaudati l’anno prima a Venezia: «Se in te sol regna il mio amore» e «Al mio piè cadrà svenato», dall’Argippo di Porta. Lo Spirito in forma di donna fece il suo breve intervento con la medesima aria già proposta a Londra («Il vostro maggio»). Eustazio cantò un brano di Leo («Chi forte ha in petto il cor») e un’aria d’ignoto autore («Agitata da fiero timore»).
I brani ricostruiti: i recitativi
I recitativi sono stati ricostruiti dallo scrivente: dove possibile, e seguendo le indicazioni del libretto (che indicava fedelmente quali recitativi furono composti da Leo) si è seguita la lezione originale di Händel. Sono interamente opera del curatore i recitativi alle scene IV, IX, X dell’atto primo; scene IV, VI, XI dell’atto secondo; scene IV, V, VI, VII, XVI dell’atto terzo.
Ecco ciò che invece manca nell’esecuzione di Martina Franca: per esigenze pratiche si è scelto di non ricostruire le musiche il prologo e le quattro scene dove Lesbina e Nesso agiscono da soli (I, 11; II, 12; III, 8 e 11): tali porzioni del libretto sono state recitate da due attori. L’unico taglio vero e proprio riguarda le scene XIV e XV dell’atto terzo: queste non contenevano alcun pezzo chiuso (in esse si trovava l’ultimo scontro tra Armida e Rinaldo, un duello campale a seguito del quale la maga viene imprigionata; stando alle indicazioni tipografiche nel libretto non furono composte da Leo).
I brani ricostruiti: le arie
Allo stato attuale delle ricerche, 6 dei 32 pezzi chiusi del Rinaldo sono perduti. Nella partitura ricostruita tali lacune sono state colmate tenendo conto di una serie di criteri (a patto che il testo del brano interpolato fosse simile o drammaturgicamente coerente rispetto al brano perduto).
In alcuni casi si è attinto al medesimo repertorio del cantante in questione: nel caso di Almirena, la sua aria perduta «Crudo ciel fra le catene» (II, 5) viene sostituita con «Amami pur, se vuoi». La Dotti interpretò quest’aria di Sarro nella medesima stagione operistica (Arsace, Napoli 1718). Nel passare da quel titolo al Rinaldo tale brano non perde il suo significato: in Arsace la principessa Rosmiri rifiuta l’affetto di Arsace per non andar contro i disegni della regina Statira. Inserendo quest’aria nel Rinaldo, il rifiuto di Almirena per Argante viene reso ancor più esplicito.
Talvolta ci si è rivolti al repertorio del medesimo compositore, come nel caso di Argante. La sua aria perduta «Per te la speme in seno» (I, 5) era parodia dell’aria «Par che mi nasca in seno» dal Tamerlano di Francesco Gasparini (Verona 1715). Come è noto, Gasparini pose in musica almeno tre volte il libretto di Agostino Piovene, e ciò diede luogo a tre versioni distinte: Venezia 1711 (da cui deriva Verona 1715), Reggio Emilia 1719 (col titolo Bajazet), Venezia 1723 (col titolo Bajazette). L’unica intonazione dell’aria «Par che mi nasca in seno» che oggi sopravvive è quella dal Bajazette del 1723. Purtroppo non siamo in grado di determinare se quest’aria fosse la medesima sentita nel 1711 e che Minelli propose nel Rinaldo, tuttavia ci è parso legittimo includerla nella presente ricostruzione.
Nel caso di cantanti per i quali non è attestato un repertorio precedente all’esecuzione del Rinaldo (come per Lucia Grimani, interprete della parte di Eustazio) ci si è rivolti a brani di compositori coevi. Le due arie perdute di Eustazio sono state sostituite con una di Antonio Lotti («Sia speme o inganno» dall’Alessandro Severo, Venezia 1717) e una di Sarro («Ho due compagni al cor» dall’Arsace). Tali brani non rappresentano la vocalità dell’interprete originale, bensì quella dell’interprete scritturato a Martina Franca. Va però sottolineato che Lotti e Sarro erano compositori spesso usati nei pasticci messi in scena a Napoli intorno al 1718 (si pensi per esempio alle seguenti riprese di opere di Lotti date al San Bartolomeo tra il 1708 e il 1713: L’inganno vinto dalla ragione, La forza del sangue, Artaserse re di Persia, Il comando non inteso ed ubbidito, Porsenna).
In alcuni casi si è ricorso a Händel: l’aria perduta di Armida («Congiurati già veggo a’ miei danni») a Martina Franca è stata sostituita da «Vo’ far guerra e vincer voglio» dal Rinaldo londinese. Una scelta dovuta a esigenze pratiche, benché non rappresentativa dello stile vocale dell’interprete originale Marianna Benti Bulgarelli (la quale, tuttavia, non era del tutto estranea al canto virtuosistico: si veda l’aria «Un lampo di speranza»). Dal punto di vista musicale risulta poco verosimile che a Napoli nel 1718 si eseguisse un brano di tale lunghezza col clavicembalo concertato, tuttavia, il testo dell’aria «Vo’ far guerra e vincer voglio» si mostra pienamente coerente col desiderio di rivincita di Armida espresso in quella scena.
Conclusione
La speranza di chi scrive è che nei prossimi anni possano essere identificati ulteriori frammenti del Rinaldo. I recenti ritrovamenti infondono qualche speranza. Un esempio: nel 2003 il musicologo Steffen Voss identificò il Motezuma di Antonio Vivaldi in un manoscritto incompleto della Staatsbibliothek di Berlino: chi avrebbe mai pensato di ritrovare questo titolo?
Quello che gioverà al Rinaldo sarà il confronto ulteriore tra fonti edite e inedite: sia per perfezionare le attribuzioni dei pezzi chiusi (non ancora nota è la paternità di ben 3 brani dell’opera), sia per tentare di ritrovare le 5 arie mancanti.
Inoltre, la presente ricostruzione non esaurisce tutte le possibilità di completare questa partitura: a seconda del contesto esecutivo, e di eventuali future acquisizioni, le lacune potrebbero essere sanate in maniera ancor più convincente o addirittura con materiale autentico (qualora si rinvenissero ulteriori porzioni del Rinaldo).
La poesia del Rinaldo celebrava la sconfitta del “diverso” sul piano ideologico e morale. Per contro, la partitura celebrava l’eterogeneità più totale. Lasciamoci ispirare dalla musica: nel XVIII secolo la diversità di codici e stili era portatrice di valori edificanti. Speriamo che la curiosità per il diverso, e la ricerca della bellezza, non manchino mai anche nel XXI secolo.
Un ringraziamento speciale va al M° Simone Ori per aver assistito con cura e pazienza alla stesura dei recitativi ricostruiti.
Come ti sei avvicinato alla musica? La famiglia era interessata?
I miei genitori non sono musicisti, ma ascoltavano tanta musica, soprattutto cantautorato e rock (non mi sono mancati gli stimoli!). Da bambino mi portavano spesso a concerti di musica classica. Raccontano che quando avevo tre o quattro anni ci fu un momento divertente con Severino Gazzelloni: dopo un suo concerto mi fece provare il suo flauto, era sicuramente troppo pesante per un bambino di quell’età, tuttavia non mi cadde di mano e tutto andò tutto bene. Chissà, forse mi ha portato fortuna?
E quando ti sei trasferito a Bologna?
A 19 anni per studiare Lettere moderne all’Università. Volevo diventare insegnante come i miei genitori… e invece ho scoperto l’opera.
Dove hai vissuto fino a 19 anni?
Ho vissuto in Sardegna, dove sono nato. Il mio paese d’origine contava circa duecento abitanti: studiare musica lì era un’impresa. I miei genitori erano preoccupati perché non capivano quanto questa passione potesse essere un amore momentaneo o una vocazione. Però mi lasciavano fare e sperimentare…
I tuoi interessi e anche il tuo lavoro si rivolgono principalmente all’opera o anche alla musica da camera e sinfonica?
Come ascoltatore sono onnivoro. Ho la fortuna di lavorare quasi esclusivamente sulle musiche che amo di più: quelle del primo Settecento italiano. Che è stato il mio primo amore nell’infanzia… più tardi mi sono avvicinato all’opera italiana del primo Ottocento. Strutture simili, ma tutt’altri contenuti musicali, altre specificità, altri organici orchestrali; piano piano ho allargato il mio cerchio. Ti posso dire cosa non mi piace? Non sono mai riuscito ad ascoltare un’opera intera di Wagner…
Mi hanno detto che la partitura parziale del pastiche napoletano del Rinaldo è stata trovata fortunosamente in una dimora borghese, dove si trova pure un parco per bambini e uno zoo-safari.
Faccio un piccolo preambolo. Esistono tantissime fonti del genere, soprattutto nel nord Europa. Quando nel Settecento si affermò l’usanza del Grand Tour gli aristocratici che venivano in Italia seguivano anche l’opera e portavano a casa un ricordo di quello che gli era piaciuto, come le musiche degli spettacoli a cui avevano assistito (per eseguirle per conto proprio o per farle eseguire dai propri musicisti). Quindi queste fonti antiche, dopo secoli, e dopo passaggi di proprietà talvolta finiscono nei luoghi più impensabili: istituti religiosi, archivi privati, etc. In questo caso si tratta di Longleat House, la residenza storica dei marchesi di Bath e ora parco divertimenti per bambini.
L’archivio del castello di Longleat House è consistente?
Contiene pochi manoscritti musicali, quasi tutti degli unica (come la serenata Partenope, Sebeto e Tago di Leonardo Leo). Quindi importantissimi. Gran parte di questi manoscritti furono confezionati a Napoli nel primo Settecento. Forse si trattava di regali o souvenir di un viaggio. Come per esempio il manoscritto del Rinaldo che non è una partitura completa, ma è una scelta che comprende 15 arie (la metà delle arie di quest’opera).
Il libretto dove si trova?
Il libretto si conserva a Bologna.
Nel manoscritto ritrovato ci sono anche musiche di Händel o solo quelle degli altri autori?
Ci sono brani di Händel e brani degli altri autori. Il committente del manoscritto chiese copia solo dei brani che gli erano piaciuti. Non è dato sapere se venne poi utilizzato, trattandosi di una bella copia, dalla confezione abbastanza lussuosa e senza segni d’uso, forse rimase in uno scaffale per secoli.
Questo progetto, oltre che dal Festival della Valle d’Itria, è stato sostenuto anche da altri?
Questa ricerca era un sogno nel cassetto dal 2012, quando si ebbe notizia di questo manoscritto, che però sembrava irraggiungibile. Il sostegno del Festival della Valle d’Itria è stato fondamentale. Mi hanno sostenuto molte persone: In primis il direttore artistico del Festival, Alberto Triola, subito affascinato da quando gliene parlai per la prima volta. E poi il Maestro Simone Ori, direttore d’orchestra e grande musicista che mi ha assistito nella composizione dei recitativi perduti.
Ho trovato assai interessante l’idea di mettere in scena il Rinaldo napoletano assemblato da Leonardo Leo. Fino ad alcuni anni fa una proposta del genere sarebbe stata guardato con sospetto (per usare un eufemismo) e in certi ambienti ancora oggi. Credi che ci sia spazio e possibilità di dar vita a operazioni simili?
Gli ascoltatori di oggi sono curiosi e bene informati. Per esempio in questi anni ci sono state tante incisioni e tante esecuzioni dei pasticci assemblati da Händel, che usava musiche di altri compositori dell’epoca, e che imparò tanto dai compositori più giovani di lui (Giacomelli, Porpora, Vinci). Dai riscontri del pubblico vedo che questi esperimenti sono premiati. È molto bello che si dia importanza a queste opere che all’epoca erano ascoltate al pari delle altre, senza distinzioni di genere. Per esempio vorrei ricordare che negli anni dieci del Settecento, in una città come Napoli, talvolta più della metà di una stagione era composta da riproposizioni di opere già sentite a Venezia o in altre città, certamente con aggiunte e modifiche di un giovane compositore locale. Così nascevano quelli che oggi chiamiamo pasticci. E il pubblico non aveva alcun problema, anzi. A quell’epoca il contesto teatrale era molto più eclettico di quanto noi pensiamo. Ne avremo un’altra prova con l’Orfeo di Porpora, un pasticcio per Londra nel 1736, e tornerà in scena quest’estate a Martina Franca.
Era un modo di far teatro liberissimo e molto lontano dal nostro usuale approccio alla pagina scritta…
Oggi abbiamo un approccio più strutturato al testo musicale, ma talvolta rigido, e parlo sia per i musicisti, sia per i musicologi. Quello che dici tu sul culto della pagina scritta, è verissimo. Quando si passa dal repertorio musicale più recente (dettagliato come una cartina geografica dettagliata nei minimi particolari) al repertorio del primo Settecento non bisogna avere alcuna venerazione della musica così com’è scritta. Certo, occorre rispettare e saper ascoltare il testo, ma non metterlo su un piedistallo. Abbiamo già troppa religione e troppa ignoranza nella vita di tutti i giorni. Chi suona e anche chi ascolta a volte non si rende conto che la partitura, soprattutto nell’Età moderna, era un canovaccio, non una sceneggiatura cinematografica da seguire nelle minime inflessioni. Una partitura di quel periodo lasciava un certo margine all’esecutore e gli chiedeva di trovare delle soluzioni per valorizzare la sua esecuzione. La trattatistica storica dà delle direttive ma, anche seguendo queste istruzioni, non dobbiamo aspettarci che ogni interpretazione sia uguale a tutte le precedenti per essere corretta. Diciamo che una partitura più è carente di indicazioni testuali, più dovrebbe stuzzicare il musicista e stimolarne il senso critico. Prima ancora di iniziare a suonare bisogna capire cosa manca, non solo ragionare su come eseguire ciò che è scritto. Si tratta di un discorso complesso, però prendiamo come esempio il problema delle variazioni. A volte leggo dei pareri agghiaccianti. Posizioni estremiste che vedono nelle puntature o nelle variazioni un puro narcisismo dei cantanti. Queste posizioni sono sbagliate e antistoriche, e dobbiamo assolutamente rifuggirle. La musica deve stimolare un confronto tra posizioni diverse, non una crociata tra giusto e sbagliato…
E si potrebbe estendere questo discorso anche al repertorio ottocentesco, o per lo meno del primo ottocento, che non aveva la libertà del periodo barocco, del sei-settecento diciamo, però poteva vantare una libertà esecutiva notevole, che oggi non viene seguita o si ha paura di seguire fino in fondo. Prima dell’intervista si parlava della lettera di Bellini a Florimo, che veniva incaricato di scrivere le puntature e gli accomodamenti del Pirata per Domenico Donzelli. Come sappiamo Il pirata era stato scritto per un tenore acutissimo e chiaro dalle caratteristiche eccezionali come Rubini e questi accomodamenti venivano approntati per un baritenore, un cantante per molti versi opposto come caratteristiche vocali rispetto al destinatario della parte. Quindi non sarebbe male cominciare a parlare di un ripensamento riguardo alla prassi esecutiva ottocentesca e riportarla in auge, naturalmente in base al gusto moderno, cercando di abbattere i muri di quel rigorismo, di quella fedeltà alla pagina scritta a tutti i costi che oggi va per la maggiore.
Già Philip Gossett diversi anni fa lamentava questo fatto. Invece di proporre sempre le stesse cadenze, sarebbe opportuno che ogni cantante si interrogasse su cosa proporre in base alla propria vocalità. Spesso i direttori hanno fretta e non hanno pazienza, però sarebbe bello che i cantanti si prendessero nuovamente certe libertà. Faccio un esempio di ascolto dal vivo che ho avuto di recente. Ho molto apprezzato che a Venezia Jessica Pratt e Teresa Iervolino abbiano proposto una loro cadenza alla fine del tempo lento di Giorno d’orrore! ( nella Semiramide di Rossini n.d.r.). Una cadenza che riprende sia quella della Horne e della Sutherland, sia quella celebre delle sorelle Marchisio. Un’idea brillante perché era molto personale, e nello stesso tempo conteneva un omaggio alla tradizione esecutiva recente e passata. Aggiungo inoltre che la generosità degli artisti è una cosa fondamentale nell’opera, e quando il cantante s’ingegna e non si risparmia nell’esecuzione come in questo caso per noi ascoltatori è davvero gratificante.
Il processo che riguarda le variazioni e le cadenze è iniziato da tempo, anche se c’è ancora molta strada da fare. Ma io parlavo proprio di adattamento nel caso di opere particolarmente ostiche o scritte per cantanti eccezionali come poteva essere Rubini; un adattamento per un cantante di tipo diverso, come poteva essere Donzelli. Non so se sia possibile trovare esempi scritti tipo il lavoro che a Florimo fu commissionato da Bellini.
Anche nel Settecento ogni cantante cambiava qualcosa nella propria parte, pure nei recitativi. Per gusto o per vanità, un po’ come per mettere la propria firma. D'altronde il pubblico si aspettava di riconoscere l’impronta personale dell’interprete in ogni recita. Altrimenti come faceva a essere ricordato? Ti potrei citare il caso di Vittoria Tesi, grandissima attrice nonché il contralto più famoso del XVIII secolo. Quando Anna Girò, cantante assai meno famosa, cantò uno dei ruoli della Tesi, si fece adattare i recitativi da Antonio Vivaldi perché li trovava scomodi. Non riusciva davvero a cantare i recitativi della Tesi? Chissà. L’impresario si arrabbiò, ma lasciò correre. A quell’epoca era la prassi… e i cantanti avevano l’ultima parola.
Quali sono le maggiori difficoltà pratiche per ricercatore, uno studioso nell’ambito della musicologia? Accesso ai testi, possibilità di consultarli e studiarli… Quali ostacoli si possono trovare?
Purtroppo è difficile produrre uno studio scientifico quando si è studenti o non si lavora all’interno di un’istituzione culturale: ci possono essere costi notevoli. In questi anni sono comparse moltissime fonti disponibili gratuitamente anche su internet. E, in ogni caso, i canali per ottenerle anche a pagamento sono più facili che un tempo. Questo è un bene in entrambi i casi. Quindi ti risponderei dicendo che la ricerca musicologica può avere due ostacoli: il primo la mancanza di risorse economiche, il secondo più grande la mancanza di connessione tra il mondo accademico e il mondo lavorativo. Dieci anni fa ho avuto la fortuna di essere preso sotto la protezione di Vivica Genaux, che mi ha aiutato a inserirmi professionalmente e a fare le prime esperienze. Non capita a tutti i giovani musicologi un’opportunità del genere, soprattutto quando si prospetta una carriera freelance. Purtroppo tanti studenti di musicologia producono edizioni critiche e ricerche utilissime in vista di una tesi di laurea o di dottorato. Ma dopo cosa accade? Se l’Università e i teatri o le istituzioni musicali non riescono a garantire una continuità, questa forza lavoro andrà dispersa. Gli studiosi di oggi un domani finiranno per occuparsi d’altro.
I tuoi prossimi impegni?
Due incisioni discografiche dedicate al repertorio vocale di Johann Adolf Hasse, con Francesca Ascioti e l’orchestra romana Enea Barock Orchestra. Il Giardino dei sospiri, solista Magdalena Kožená, con l’Orchestra Collegium 1704 sotto la direzione di Václav Luks. CD in uscita a maggio per l’etichetta Pentatone e tournée a giugno con tappe all’Opéra Royal di Versailles (6 giugno) e al Musikverein di Vienna (25 giugno). Gala Concert Farinelli & Friends. Concerto al Festival di Salisburgo, con Vivica Genaux e altri cantanti (8 giugno).
Heroes in Love: arie d’opera di Gluck. Concerto con Sonia Prina e laBarocca (Gluck Festspiele di Norimberga, 29 giugno).Orfeo di Nicolò Antonio Porpora: prima esecuzione in tempi moderni al Festival della Valle d’Itria (2 agosto).
Te Deum di Giovanni Bononcini (prima esecuzione in tempi moderni). Coro e Orchestra Ghisleri diretti da Giulio Prandi. Concerto del 6 ottobre al Festival di Ambronay.Addio amore! (solisti Olena Tokar e Terry Wey, con Kammerorchester Basel, primo violino e direzione: Julia Schroeder). Concerto con musiche di Pollarolo, Porpora, Hasse, Albinoni, Leo, Händel, Giacomelli, Porta e Bononcini. Novembre 2019 a Basilea e Halle.
Calendario molto nutrito! Ringrazio Giovanni Andrea Sechi per la disponibilità e per le interessanti osservazioni a nome di tutta OperaClick.
Saluto i lettori di OperaClick, comunità estremamente viva e carinissima che seguo da tanti anni… soprattutto le accese discussioni del forum!
RINALDO
Teresa Iervolino
Carmela Remigio
Francisco Fernández-Rueda
Loriana Castellano
Francesca Ascioti
Dara Savinova
Orchestra La Scintilla
Direttore, Fabio Luisi
Prima rappresentazione moderna sulla versione napoletana del 1718
3CD Dynamic 2019, 141’ 00”
Il Rinaldo di Georg Friedrich Händel (1685-1755) venne rappresentato per la prima volta al Queen’s Theater di Londra nel 1711. L’opera, la prima in lingua italiana composta per un teatro inglese, ebbe un grande successo ed un enorme seguito. Il primo interprete della parte del protagonista fu il castrato napoletano Nicola Grimaldi. Alcuni anni più tardi Grimaldi, ricco e famoso, fece ritorno a Napoli portando con sé la partitura dell’opera, probabilmente all’insaputa di Händel. La affidò a Leonardo Leo (1694-1744) perché la adattasse al gusto del pubblico partenopeo. Quest’ultimo la rimaneggiò facendone un pasticcio, cioè una composizione realizzata aggiungendo o sostituendo alle parti originali brani di altri autori, secondo una pratica diffusa nel barocco. Nel caso del Rinaldo, Leo aggiunse un prologo dedicato a Carlo VI d’Asburgo, all’epoca re di Napoli, due personaggi buffi, Lesbina e Nesso e alcune arie di sua composizione assieme ad altre di autori vari, tra i quali Giovanni Porta (1675-1759), Domenico Sarro (1679-1744), Francesco Gasparini (1661-1727), Giuseppe Maria Orlandini (1676-1760), Giuseppe Bononcini (1670-1747), Antonio Vivaldi (1678-1747), conservandone undici dello stesso Händel. Il pasticcio fu quindi rappresentato nell'ottobre del 1718 con Grimaldi protagonista.
Di questa versione esisteva il libretto, mentre si riteneva perduta la partitura, almeno fino al casuale ritrovamento in Inghilterra nel 2012 di una trascrizione manoscritta di 15 delle 32 arie previste per la versione rimaneggiata da Leonardo Leo.
La versione napoletana di Rinaldo, con la revisione/ricostruzione del curatore Giovanni Andrea Sechi, è tornata in scena dopo trecento anni durante la 44ª edizione del Festival della Valle d’Itria, con la direzione di Fabio Luisi a capo dell’Orchestra la Scintilla.
Il triplo CD della DYNAMIC riporta l’incisione dal vivo dello spettacolo andato in scena nel luglio-agosto del 2018.
L’operazione di ricostruzione, come descritta puntualmente nelle note del libretto, risulta estremamente interessante, sia come esempio di prassi compositiva del periodo, sia per capire meglio quali fossero i gusti del pubblico dell’epoca: a Napoli usava infatti far coesistere personaggi seri e buffi a differenza del resto d’Italia in cui si manteneva una separazione netta tra dramma e intermezzo. Altrettanto non si può dire per la resa artistica e musicale. Mentre la ricostruzione delle parti perdute appare coraggiosa, ad esempio nella scelta di arie coeve in sostituzione di quelle originali mancanti, così non si può dire per il lavoro sul prologo, privo dell’accompagnamento musicale andato perduto e affidato ad una voce recitante infantile, a dir poco fastidiosa. Anche i recitativi non ritrovati, composti per l’occasione dallo stesso Sechi, necessari alla ricomposizione del testo, risultano poco espressivi, in alcuni casi per eccesso di enfasi, in altri per mancanza di fluidità da parte degli interpreti. Può sembrare anacronistico, ma quando i recitativi sono così lunghi andrebbero interpretati en souplesse, come seguendo l’idea di un “canto di conversazione” ante litteram.
L’esito della parte musicale è alquanto slegato e disomogeneo. La direzione di Luisi, seppure a capo di un’ottima orchestra specializzata in musica del periodo, non aiuta a dare unitarietà stilistica ad un lavoro che è quasi una antologia di arie di autori diversi. L’orchestra dovrebbe anticipare e accentuare gli affetti, sia per Händel che per gli autori a lui contemporanei, presenti nel pasticcio. I tempi sono generalmente lenti, rendendo faticoso il lavoro dei cantanti, costretti a fiati lunghi che a volte si spezzano. Inoltre, benché sia difficile stabilire quanto dipenda dalla registrazione, l’orchestra tende ad affievolirsi nell’accompagnamento dell’aria. In realtà il sostegno ritmico, espressivo e descrittivo dell’orchestra è vitale per l’interpretazione, perché rappresenta un punto a favore del personaggio, la cui intenzione viene rafforzata da quello che non è un mero accompagnamento, ma una parte fondante del carattere e del momento che si sta rappresentando.
Teresa Iervolino, Rinaldo, appare penalizzata dalla tessitura molto bassa, soprattutto nel primo atto. In seguito riesce a recuperare quella forza assertiva che è propria del personaggio. Una scelta di tempi più brillanti l’avrebbe forse aiutata ad esprimere il lato guerriero del suo ruolo, mentre le arie più struggenti e malinconiche avrebbero meritato maggior abbandono da parte dell’orchestra. Carmela Remigio ha un timbro troppo prezioso e delicato per Armida, che si presenta più gran signora che maga. Loriana Castellano, nel ruolo di Almirena, è poco convincente nelle agilità e la sua linea di canto appare in generale poco fluida. Francisco Fernandez-Rueda, Goffredo, poco espressivo e dalle agilità stentate, è però titolare di una magnifica aria di canto spianato Se in te sol regna il mio amore di Giovanni Porta, che interpreta in modo convincente, e che resta subito impressa nella memoria, come tutte le belle melodie. A lui tocca un’altra bellissima aria di raro ascolto, Sì Sì lasciatemi di Giuseppe Maria Orlandini, anche questa da portare con sé e riascoltare, comunque perfettibile con una migliore gestione della parte vocale, in questa occasione ben servita dall’orchestra. Francesca Ascioli eredita il ruolo spettacolare di Argante, scritta per il basso Giuseppe Maria Boschi, qui privato di un’aria leggendaria come Sibilar gli angui di Aletto. Canta il restante con qualche fatica nelle colorature, e con abbellimenti non sempre congrui. Dara Savinova, Eustazio, perde tensione nella linea di canto, frammentaria per le colorature spezzate e poco fluide.
In parti minori compaiono tre allievi dell’Accademia del Belcanto Rodolfo Celletti, Dielli Hoxha, Kim-lillian Strebel, Ana Victoria Pitts, che forse avrebbero potuto trovare spazio maggiore tra il cast senza sfigurare. È un’ottima iniziativa che fa piacere segnalare. Valeria Cardinali, Lesbina, e Simone Tangolo, Nesso, sono impegnati negli intermezzi, necessari anche se non memorabili.
Fortunatamente l’ascolto del CD ci ha risparmiato la profanazione visiva di miti del pop e del rock nelle vesti dei protagonisti.