Simon Boccanegra | Claudio Sgura |
Maria/Amelia | Eleonora Buratto |
Jacopo Fiesco | Michele Pertusi |
Gabriele Adorno | Stefan Pop |
Paolo Albiani | Gevorg Hakobyan |
Pietro | Luciano Leoni |
Ancella di Amelia | Angela Nicoli |
Capitano dei balestrieri | Michael Alfonsi |
Direttore d'orchestra | Michele Mariotti |
Regia | Richard Jones |
Maestro del coro | Ciro Visco |
Scene e costumi | Antony McDonald |
Luci | Adam Silverman |
Movimenti mimici | Sarah Fahie |
Maestro d'armi | Renzo Musumeci Greco |
Orchestra e Coro del Teatro dell'Opera di Roma | |
C’è un modo di dire, diffuso in molte regioni italiane, che mi pare adatto a esprimere un giudizio sintetico sul Simon Boccanegra con cui il Teatro dell’Opera di Roma inaugura la stagione 2024-2025: è bello, ma non balla. Bello da ascoltare, in particolare. Per tutta l’opera si ha l’impressione di essere sul punto di decollare, di attraversare quella soglia oltre la quale alcune opere di Verdi trascendono la “semplice” bellezza di una creazione umana; eppure, l’atteso miracolo non si compie.
Per lo meno, il miracolo non si compie – musicalmente parlando – nella recita pomeridiana di sabato 30 novembre, che inizia con l’annuncio dell’indisposizione di Luca Salsi; giacché ogni giorno è un nuovo giorno, all’opera, e quel fattore ineffabile (o quell’interprete) che manca oggi può benissimo esserci domani.
Richard Jones si era lasciato parecchio apprezzare a Roma nel 2015, per un’interessantissima Dama di picche, e nel gennaio del 2022 per una splendida Káťa Kabanová; questa volta, però, il regista londinese toppa clamorosamente. Verdi, soprattutto se lo si vuole realizzare in un modo adatto al gusto contemporaneo, necessita di accortezze registiche specifiche che qui non vengono prese: in un impianto drammatico apparentemente moderno, gli interpreti sono mossi in modo abbastanza banale oppure vengono lasciati fermi come belle statuine per vari minuti, a cantare e muovere le mani.
Mettere in scena una delle opere più anti-bellicistiche della produzione verdiana, oltretutto, in un momento storico attraversato da odiose guerre e massacri in tutto il mondo, apre a un mare – per rimanere in tema – di possibilità. Con più di un pizzico di ignavia, invece, Jones opta per un approccio a metà tra il simbolico e il didascalico, evitando accuratamente ogni riferimento all’attualità. I costumi da secondo dopoguerra di Antony McDonald, artefice anche delle scene (tra cui quella più gradevole che rifà Piazza d’Italia di de Chirico), sono bruttarelli; quello di Fiesco in versione “Capitan Findus”, poi, davvero ridicolo. Più che di luci, potremmo dire che Adam Silverman si è occupato, discretamente bene, di ombre. Lo spettacolo si apre sull’elemento scenico che farà da “sipario”, nonché da elemento simbolico di separazione tra un dentro e un fuori intesi in vari modi: una superficie marrone che sembra proprio la facciata di una gigantesca scatola di cartone, con due buchi ritagliati per le finestre e uno per la porta. Un castello/casa di carta.
Un epico poema politico-marinaresco, storicamente situato in modo forte e lanciato in faccia alla violenza umana, si trasforma in una sorta di dramma della malinconia ambientato in epoca post-fascista. La regia, però, non ha il coraggio di andare fino in fondo, mantenendo incoerentemente alcuni elementi didascalici e sopprimendone altri, in una delle opere più difficili da ricontestualizzare, vista l’enorme massa di riferimenti concreti presente nel libretto di Piave e Boito. Quand’è ambientata questa messa in scena? Nel secondo dopoguerra? E allora perché gli interpreti vanno in giro con dei rozzi gladi (“l’altera lama”), anziché con delle armi da fuoco? Spesso, i personaggi dicono cose che risulta molto complicato collegare a quanto si stia vedendo in scena, o che addirittura sembrano contraddire ciò che accade sul palco; stesso discorso per la musica. Alcuni esempi: il cielo non si “inalba”, ma rimane per l’intera durata della scena “di stelle orbato”; “l’altero ostel” diventa una grezza struttura tipo-faro, in mezzo a scogli brulli, quindi le già complicate parole “il tetto disadorno non obliai per te” diventano incomprensibili (e incomprensibile diventa tutta la questione dell’eredità dei ricchi Grimaldi); il mare, co-protagonista dell’opera, non è pervenuto in scena: si vedono il faro e gli scogli, le barche, ma il mare sembra proprio non esistere, in questa Genova sempre buia e cupa; il Doge verdiano commenta sornione che “del popolo la voce” consiste solo in “grido di donne e di fanciulli”, eppure in scena osserviamo degli scontri fisici cruenti e insistiti tra gli uomini dei popolani e quelli degli aristocratici; ancora, nell’ultimo atto, vediamo il Doge camminare barcollante e morente per le vie della città, facendo così perdere l’effetto musicale di “apertura” sulla splendida frase «Ah! Ch’io respiri / l’aura beata del libero cielo! /Oh refrigerio!... La marina brezza!...» e rendendo inutile anche il verso che rivolge al vecchio Fiesco (“chi osò inoltrarsi?”).
Per quanto riguarda gli esiti musicali, il discorso è diverso. Michele Mariotti, a distanza di quasi un ventennio dal suo primo Simon bolognese, propone la sua matura interpretazione dell’opera. È una lettura eclettica, puntellata qui e lì da pause e silenzi sempre protratti un istante in più di quanto ti aspetteresti, silenzi spesso alludenti a una dimensione altra e impalpabile, e a tratti muscolarmente risuonante o malignamente sibilata, in odor di verismo. Una lettura che da un lato dona enfasi e memorabilità ad alcuni versi scelti, dall’altro gioca su una sottile antiretorica che si discosta consapevolmente – soprattutto nelle scene più celebri – dalla tradizione esecutiva costituita soprattutto dai modelli più recenti, in particolare italiani: Abbado prima, poi il Muti romano. Per fare ciò, però, ottenendo un risultato storico, diventa fondamentale giocare con i giocatori giusti che siano nella serata giusta. Il pomeriggio del 30 novembre, come dicevo all’inizio, qualcosa non ha funzionato: anche le squadre più eccellenti e blasonate, di tanto in tanto, entrano in campo con meno convinzione. L’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma si dimostra all’altezza di una sfida simile e ancor più il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, diretto da Ciro Visco, che riesce a passare con grande omogeneità e compattezza dai sussurri minacciosi al canto a piena voce, mantenendo quei colori scuri e malinconici che costituiscono la cifra musicale di queste recite.
Claudio Sgura è un buon professionista e porta a casa una serata felice nei panni del protagonista. Salva la serata, inoltre, sostituendo l’indisposto Salsi poco prima dell'inizio e, così facendo, si carica generosamente sulle spalle due recite in giorni consecutivi.
Eleonora Buratto è una notevole Amelia. Il fraseggio e la dizione sono praticamente perfetti; la gestione dei tempi ottima, tanto che, nonostante i rubati qua e là e gli scatti in avanti, la sincronia con la buca permane invariata in ogni momento; il timbro, leggermente brunito, si va a scurire fascinosamente in alcuni passaggi; la voce, in generale, sembra faticare leggermente sulle note più acute e perdere un po’ di potenza sulle più gravi, segno che forse il ruolo, vocalmente parlando, “le sta un po’ largo”, ma piazza alcune zampate qua e là (tipo lo splendido “padre” con cui conclude il duetto con Simone) per ricordare che, comunque, può affrontare queste difficoltà da interprete di caratura internazionale. A livello recitativo, è partecipe e ben inserita nello spettacolo.
Michele Pertusi si dimostra ancora una volta un fuoriclasse; il suo Fiesco, al pari di molti altri personaggi da lui interpretati, appare come quello di riferimento di questi anni. E non solo per la splendida prestazione canora, che trova nel Prologo e nell’epilogo i suoi momenti salienti, con un "Il lacerato spirito" da antologia, ma, come in tante altre occasioni, per l’essersi completamente messo al servizio dello spettacolo, recitando in modo convinto, seguendo il direttore e l’orchestra. Insomma, difficile trovare nei.
Stefan Pop ha tanta voce che usa assai tenorilmente senza risparmio, nei panni di Gabriele Adorno, e un timbro che non lascia indifferenti, oltre a una buona dizione; si lascia gustare sin dal primo istante, quando lancia il suo squillante "Cielo di stelle orbato" da dietro le quinte, e si becca un bell’applauso a scena aperta dopo la scena più aria "Sento avvampar nell’anima". Qualcosa da migliorare, però, sul versante interpretativo e recitativo: qualche suono un po’ troppo veristico in meno, qualche espressione facciale maggiormente comunicativa e soprattutto tanto lavoro sul linguaggio del corpo.
Grande vocione, quello di Gevorb Hakobyan nei panni del machiavellico Paolo Albiani. Anche in questo caso, però, si nota a tratti la tendenza a risolvere tutto con il volume, quando il ruolo di Paolo avrebbe bisogno anche di un lavoro di più raffinato cesello sull’interpretazione, sul “recitar cantando”. C’è da dire, a suo discapito, che la proposta registica per il suo personaggio ha forse seguito in modo un po’ troppo banalotto l’etichetta politica di “popolare”: quando comunica a Adorno che Amelia “è segno alle infami dilettanze” del vecchio Doge, mima in modo molto vistoso, ma poco adatto al carattere del personaggio, l’atto della copula.
Nei ruoli di contorno, se la cavano bene il Pietro di Luciano Leoni, l’ancella di Angela Nicoli e il capitano dei balestrieri di Michael Alfonsi.
La recensione si basa sulla recita di sabato 30 novembre 2024.
Michelangelo Pecoraro