Hamlet | Ludovic Tézier |
Claudius | Jean Teitgen |
Laërte | Julien Behr |
Spectre du Roi défunt | Clive Bayley |
Horatio | Frédéric Caton |
Marcellus | Julien Henric |
Gertrude | Ève-Maud Hubeaux |
Ophélie | Lisette Oropesa |
Polonius | Philippe Rouillon |
Premier fossoyeur | Alejandro Baliñas Vieites |
Second fossoyeur | Maciej Kwaśnikowski |
Direttore | Pierre Dumoussaud |
Regia | Krzysztof Warlikowski |
Scene e costumi | Małgorzata Szczęśniak |
Luci | Felice Ross |
Video | Denis Guéguin |
Coreografia | Claude Bardouil |
Drammaturgia | Christian Longchamp |
Maestro del Coro | Alessandro Di Stefano |
Orchestra e Coro dell'Opéra national de Paris |
La fama di Ambroise Thomas ha dovuto a lungo fare i conti con la famosa frase, non priva di sottile perfidia, pronunciata da Emmanuel Chabrier: «Vi sono due generi di musica, la buona e la cattiva e poi c’è la musica di Ambroise Thomas». Ancora più duro il giudizio di Čajkovskij, che scrisse: «Ambroise Thomas è un musicista esperto, che ha affinato al massimo le sue limitate capacità, che ha padroneggiato perfettamente la parte tecnica del suo lavoro, ma che è totalmente privo di qualsiasi personalità». Thomas giunse alla vera e duratura fama teatrale quando, ormai più che cinquantenne andarono in scena Mignon (1866) e Hamlet (1868). Precedentemente le sue opere avevano ottenuto accoglienze positive senza tuttavia restare a lungo in repertorio. La grande affermazione anche internazionale di Mignon si ripeté anche con Hamlet. Successo di pubblico, però, dato che la critica non fu tenerissima. Ad esempio la rivista Gil Blas parlò di “canto fiacco” e di “orchestra incolore e rumorosa”.
Molto più sfumate (ed equilibrate) le riserve su Le Figaro all’indomani della “prima”: «Hamlet di Ambroise Thomas porta il radioso segno di fatiche piene di fervore e di aspirazioni generose. Ogni opera da lui scritta è stata un passo in avanti in questo senso. Il signor Thomas padroneggia in modo ammirevole la massa orchestrale. Avrà visto in Hamlet un soggetto che si prestava meravigliosamente agli sviluppi dell’orchestra per la scarsa presenza di azioni forti e di spicco. Si sarà ritenuto capace di dominare il pubblico per tutta la durata dei cinque atti e di farlo penetrare, grazie alla sua sapienza musicale, alle combinazioni ingegnose e delicate, nella profondità dell’anima dei suoi personaggi. Se mai un musicista francese fosse riuscito a condurre a buon fine un simile compito, questo è certamente Ambroise Thomas. Ma l’opera intrapresa è irrealizzabile. In teatro ci vuole ben altra cosa dello stile sinfonico, della forma sinfonica. È quando è uscito da questa forma, da questo stile che Thomas è venuto meno». Giudizi aspri si riversarono anche sul taglio teatrale dato all’opera, soprattutto in Inghilterra. Dato che ancora nel 1978 Fischer-Williams su Opera News scriveva: «Nessuno, se non un barbaro o un francese, avrebbe osato fare un burlesque così deplorevole su un tema così tragico come Hamlet». Oggi, acquietatesi le polemiche tra wagneriani e anti wagneriani, come i riflessi nazionalistici e le implicazioni personalistiche possiamo goderci Hamlet per quello che è: un grand-opéra squisitamente francese, di elegante fattura e solido mestiere, dalla raffinata orchestrazione, dalle belle melodie, con qualche apertura alle nuove tendenze musicali. Niente di più e niente di meno.
Per il libretto Thomas si era rivolto, come già per Mignon, alla sperimentata “ditta” Jules Barbier e Michel Carré, autori anche, per fare qualche esempio, di Faust, Roméo et Juliette e Les Contes d’Hoffmann. I due librettisti si rifecero al libero adattamento della tragedia shakespeariana realizzato intorno agli anni quaranta da Alexandre Dumas padre; in questa versione venivano eliminate alcune scene, tra le quali quella iniziale delle sentinelle sulle mura del castello, si aggiungeva una scena d’amore tra Hamlet e Ophélie, veniva fatto riapparire alla fine il fantasma del Re defunto che affermava, rivolto al figlio: «Tu vivras». Barbier e Carré, dal canto loro, ridussero i personaggi a undici e incentrarono l’attenzione sui quattro personaggi principali (Hamlet, Ophélie, Claudius, Gertrude), concedendo largo spazio alla storia d’amore tra baritono e soprano. L’opera, concepita inizialmente in quattro atti, fu, su richiesta dell’Opéra diluita in cinque, con l’aggiunta del ballo obbligatorio, inserito prima della scena della follia di Ophélie. Un finale che prevedeva la morte del protagonista fu composto da Thomas per Londra nel 1869 e lo possiamo ascoltare in appendice all’edizione discografica diretta da Antonio De Almeida, con protagonisti Thomas Hampson e June Anderson. Anche Richard Bonynge approntò un finale alternativo, un misto tra la versione originale parigina e quella scritta per il Covent Garden.
Come già detto il successo di pubblico fu clamoroso, grazie anche agli interpreti, il baritono Jean-Baptiste Faure (ma in una prima stesura il ruolo protagonistico era stato concepito per tenore) e il soprano Christine Nilsson, per la quale il compositore aggiunse, nella scena della pazzia, la ballata “Pâle et blonde”. Ma la fortuna dell’opera non fu disgiunta pure in seguito da quella di artisti che si innamorarono dei rispettivi personaggi. Fu così con Adelina Patti, Nellie Melba, Graciela Pareto per Ophélie e con Victor Maurel e soprattutto con Titta Ruffo per Hamlet, che assicurarono la diffusione del titolo in Europa e in America fino ai primi tre decenni del ventesimo secolo. Poi ci fu una battuta d’arresto fino a che si impossessarono dei rispettivi ruoli Sherrill Milnes, Thomas Hampson, Simon Keenlyside, Joan Sutherland, June Anderson, Natalie Dessay, Stephane Dégout, Sabine Devieilhe e più recentemente Lionel Lhote e Jodie Devos. Questo a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, anche se brani singoli, in concerto e in disco, continuarono ad essere presenti in precedenza nel repertorio di altri artisti. All’Opéra il titolo era assente dal 1938, ma nel ricordo dei parigini quest’edizione doveva fare i conti con quella, magnifica, dello Châtelet, diretta da Plasson, con Hampson, van Dam e una iperurania Natalie Dessay (lo posso dire perché c’ero).
La presente edizione parigina ha ricevuto un vero e proprio uragano di boati di disapprovazione alla “prima” indirizzati alla parte visiva, di cui sono responsabili il regista Krzysztof Warlikowski, Małgorzata Szczęśniak, Felice Ross (luci), Denis Guéguin (video), insieme a Christian Longchamp (drammaturgia). Una reazione per me decisamente spropositata, sia per l’indubbia professionalità della messa in scena, con momenti suggestivi, sia perché ho trovato coerenti e per nulla scioccanti le modifiche alla trama. Il sipario si apre all’inizio su una casa di riposo/clinica con un Hamlet di mezza età e una Gertrude disabile su una sedia a rotelle intenta a guardare la televisione. Claudius, Laërte e Ophélie sono visitatori. Ma il tutto è visto con gli occhi di un Hamlet tutt’altro che lucido e come vedremo nel secondo, terzo e quarto atto (in un salto temporale di vent’anni indietro) bambino mai cresciuto, che gioca con una macchinina azionata da un telecomando e che non ha superato i traumi infantili. In tutta la sua vita non è riuscito ad assorbire il colpo della morte del padre, forse neppure deceduto per cause delittuose, come non è riuscito ad accettare il matrimonio di Gertrude con Claudius. Sicuramente è presente un forte complesso edipico nei confronti della madre e c’è il sospetto che tutta la storia amorosa con Ophélie sia frutto della sua realtà distorta. Al quinto atto si ritorna all’epoca originaria, e riappare il fantasma del padre (clown bianco triste con cappello a pan di zucchero, come all’inizio dello spettacolo e al terzo atto), mentre Hamlet si manifesta come il contraltare del genitore in nero. I costumi sono quasi tutti anni venti, il ballo all’inizio del quarto atto è un delirio del protagonista in cui ogni cosa è scollata dalla realtà. Lo stesso suicidio di Ophélie, che vediamo di nuovo alla fine, e all’inizio, come visitatrice (o come fantasma?) potrebbe essere non vero. Inspiegabile la divisione sproporzionata della serata in una prima parte di oltre due ore e una seconda di una cinquantina di minuti, mentre avrei trovato molto più logico un intervallo effettuato dopo la fine del secondo atto.
Successo incondizionato per la resa musicale. Il non ancora trentatreeenne Pierre Dumoussaud, in sostituzione di Thomas Hengelbrock, inizialmente previsto, e debuttante nella lirica alla Bastille, conduce i complessi dell’Opéra national con generosità di suono alternata a delicatezze, facendo passare in parte inosservate certe lungaggini e debolezze che qua e là si manifestano nella partitura. Peccato per qualche incidente di percorso nel settore degli ottoni, mentre da lodare è il solista al sassofono (non nominato in locandina) che si esibisce nell’assolo del secondo atto, virandolo poi verso virtuose tinte jazzistiche. Del tutto degna di ammirazione la prova del coro guidato da Alessandro Di Stefano.
Compagnia di canto da lodare in blocco. Grande protagonista Ludovic Tézier, già Hamlet a Toulouse e a Torino. Chissà come il baritono marsigliese ha affrontato questa messa in scena così poco ortodossa, lui che lo scorso anno, in un’intervista che aveva fatto un poco scalpore, si era dichiarato contrario all’iconoclastia registica. Sembrerebbe bene, visto come Tézier si cala nella lettura che Warlikowski dà del lavoro di Thomas, con assoluta convinzione, carisma scenico, sottigliezze espressive. In più vocalmente la parte, improba per durata, per tessitura, estensione richiesta, è dipanata con una facilità, una naturalezza che lascia stupiti. Davvero una prova maiuscola, che inscrive Tézier nella ristrettissima cerchia dei grandissimi baritoni dell’orbe terracqueo (se ce ne fosse ancora bisogno) e ribadisce il periodo di forma straordinaria. La voce, morbida, di bel colore, omogenea, sembra inoltre aver acquistato ulteriore ampiezza, senza perdere in flessibilità.
Lisette Oropesa, amatissima dal pubblico parigino, ottiene un altro grande successo. La voce non teme gli ampi spazi dell'Opéra Bastille e si espande con grande agio, soprattutto nei centri e negli acuti. Facilità di emissione, vocalizzazione precisissima, trilli nitidi sono alcune delle caratteristiche più evidenti. Molto espressiva, è però sfavorita dai costumi e dalle parrucche, che non le donano, ma mi chiedo a quale altra donna avrebbero potuto essere confacenti. Poi deve fare i conti col ricordo della stratosferica Natalie Dessay del 2000 al Théâtre du Châtelet; ma si tratta di un confronto ingeneroso nei confronti del soprano statunitense, che ottiene in questa produzione un successo incondizionato, oltre ad aver ricevuto pochi giorni prima dal Ministero della Cultura Francese il titolo di Chevalier des Arts et des Lettres.
Bella prova anche quella di Ève-Maud Hubeaux, voce estesa ma non molto omogenea che l’artista, assai coinvolta dal punto di vista espressivo, non si preoccupa di rendere tale, soprattutto negli affondi del registro grave. La Hubeaux è inoltre un’ottima attrice e la sua Gertrude, appassionata, carica di angoscia, disperata, lascia il segno.
Bene anche Jean Teitgen (Claudius) sebbene un poco messo in ombra dalla regia, e Julien Behr (Laërte) bel timbro ma un po’ penalizzato dall’ampiezza della sala.
Efficace Clive Bayley quale Spettro del Re defunto, anche nei primi piani del video che appare al quinto atto e che prende tutto il fondo della scena e apprezzabile nella piccola parte di Polonius il veterano Philippe Rouillon.
Si distingue nel ruolo di Primo becchino Alejandro Baliñas Vieites, bella voce di basso ben proiettata e buona linea di canto, ma non demerita nemmeno il collega Maciej Kwaśnikowski (Secondo becchino).
Da lodare anche Frédéric Caton (Horatio) e Julien Henric (Marcellus).
Come già accennato, un’Opéra Bastille quasi del tutto gremita tributava un grande successo alla parte musicale dello spettacolo con vere e proprie ovazioni indirizzate a Ludovic Tézier e a Lisette Oropesa, e applausi molto nutriti con grida di approvazione erano distribuiti anche nei confronti di Ève-Maud Hubeaux, Jean Teitgen, Clive Bayley e Pierre Dumoussaud. Tutti comunque ricevevano gratificanti consensi, in particolare il Coro, festeggiatissimo. Pollice verso feroce nei confronti di Warlikowski & Company.
La recensione si riferisce alla “prima” dell’11 marzo 2023.
Silvano Capecchi