La duchesse Hélène | Selene Zanetti |
Henri | Leonardo Caimi |
Guy de Monfort | Mattia Olivieri |
Jean Procida | Erwin Schrott |
Thibault | Matteo Mezzaro |
Danieli | Francesco Pittari |
Mainfroid | Pietro Luppina |
Robert | Alessio Verna |
Le sire de Béthune | Ugo Guagliardo |
Le comte de Vaudemont | Gabriele Sagona |
Ninetta | Carlotta Vichi |
Direttore | Omer Meir Wellber |
Regia | Emma Dante |
Scene | Carmine Maringola |
Costumi | Vanessa Sannino |
Luci | Cristian Zucaro |
Movimenti scenici | Sandro Maria Campagna |
Coreografia | Manuela Lo Sicco |
Maestro del coro | Cito Visco |
Direttore corpo di ballo | Davide Bombana |
Orchestra coro e corpo di ballo del Teatro Massimo di Palermo | |
Attori della Compagnia Sud Costa Occidentale | |
Nuovo allestimento in coproduzione con Teatro San Carlo di Napoli, Teatro Comunale di Bologna e Teatro Real di Madrid |
Les vêpres siciliennes secondo Emma Dante sono un atto d’amore nei confronti di Palermo ma anche una sferzata che colpisce duramente le coscienze siciliane e si fa monito, affinchè prevaricazione e protervia non diventino norma a cui piegarsi.
A questo proposito giova ricordare come il poderoso affresco sulla guerra del Vespro siciliano, commissionato a Verdi dall’Académie impériale de musique per la rappresentazione all’Opéra de Paris, sia uno spartiacque tra la trilogia popolare e la produzione “matura” del compositore. La forma del grand opéra, alla quale il compositore si era consapevolmente piegato, diventa qui, entro la cornice storica, l’occasione per approfondire il senso di teatralità e il governo del passo drammatico attraverso i forti contrasti musicali e l’alternanza dell’intimo tormento con la dimensione pubblica.
Nonostante le forme obbligate entro le quali Verdi deve muoversi, cinque atti e ballabili concepiti alla metà esatta dell’opera nel terzo atto per citarne solo alcune, Les vêpres siciliennes è non solo lavoro poderoso di intrecci e incastri felici di melodie attraverso sapiente strumentazione, ma anche e soprattutto vibrante ritratto della caducità umana dalle molteplici sfaccettature. Come non notarne i prodromi di sviluppi futuri che approderanno a personaggi quali Filippo II, Radamès, Aida?
Logico che l’impegno produttivo legato alla dimensione corale e pubblica, prevalente nel cammino dell’opera in teatro, ne abbia limitato la presenza nei cartelloni ed è dunque una sfida che quasi travalica il buon senso l’aver individuato questo titolo per inaugurare la stagione 2022 del Teatro Massimo. Il senso di una tale scelta solo differita, in quanto il progetto era già in itinere prima che fosse accantonato per via degli eventi pandemici, sta nella centralità della vicenda così intimamente legata alla “sicilianità” pur essendo groviglio di temi universali. La lotta contro l’oppressore, l’amore negato, il contrasto padre-figlio altro non sono che pane quotidiano del melodramma, ma qui il coté storico coinvolge direttamente il popolo siciliano dunque rappresenta materia particolarmente congeniale ad Emma Dante. La regista è quasi un’habituée delle inaugurazioni di stagione al Massimo, sue produzioni sono state infatti scelte per aprire il cartellone nel 2014 (Feuersnot di Strauss) e nel 2017 (Macbeth di Verdi). Nel caso specifico ha avuto campo libero nel rappresentare Palermo, che da libretto é luogo in cui si svolge l’azione, e lo ha fatto rapportando i temi presenti nei versi di Scribe e Duveyrier allo sfregio perpetrato dalla Mafia alla città e al risveglio delle coscienze in seguito alle tante morti per mano dei malavitosi.
I caduti per mafia li vediamo nei gonfaloni che sfilano in apertura del primo atto fra le statue rinascimentali di Piazza Pretoria, qui ricostruita con mano sapiente dallo scenografo Carmine Maringola. Il giogo del tiranno e la violenza che scaturisce dall’imposizione di regole sanguinarie sono anche nei costumi pacchiani concepiti da Vanessa Sannino per gli oppressori, una vera sfida alle convenzioni teatrali per via delle tute in acetato viola indossate dalle masse corali, e degli abbaglianti abiti dorati con tanto di copricapo a forma di teste di moro per gli invitati alla festa di Monfort.
Lo spettacolo è zeppo di riferimenti alle tradizioni popolari dell’isola: le ceramiche d’arte di Caltagirone e i suoi motivi geometrici per la profonda riflessione del governatore e il susseguente duetto con Henri, la barca di Procida chiamata Rosalia e i riti dedicati alla “Santuzza”, i pupi scaricati fra i rifiuti che improvvisamente si animano come simbolo di ribellione all’oppressore. La cifra stilistica della Dante è poi ben presente nei movimenti scenici affidati agli attori del Compagnia Sud Costa Occidentale che sono parte integrante di tutte le produzioni d’opera della regista palermitana.
Si può dire però che la scelta dirompente che ha fatto arricciare il naso a molti e gridare allo scandalo i cosiddetti epigoni del purismo è stata l’aver smembrato i ballabili in quattro momenti differenti dello spettacolo. In realtà le danze sulle quattro stagioni sono presenti in partitura nel terzo atto nella scena della festa al palazzo del governatore. Qui invece sono stati proposte stagione per stagione a partire dall’atto primo nel cui finale sono risuonate le note dell’autunno riarrangiate per fisarmonica, clarinetto e contrabbasso. In scena si assisteva allo sfregio alla bellezza di Piazza Pretoria, diventata una discarica a cielo aperto, mentre una leggiadra danseuse ballava tra i rifiuti. Profanazione, orrore? Il pubblico palermitano, dopo un istante di stupore gelato, ha apprezzato ed applaudito la scelta coraggiosa mostrando di abituarsi alla ricomparsa delle altre danze in successivi momenti dello spettacolo.
Di certo nell’arco delle quasi quattro ore si è visto il solito accurato lavoro della Dante sulle masse artistiche in felice sinergia con i suoi attori e figuranti e con il corpo di ballo del teatro, ma la regia ha alternato momenti di grande impatto visivo e drammaturgico ad altri di minore capacità inventiva nei quali la regista ha attinto al suo bagaglio di suggestioni già utilizzate in altre produzioni.
Piena sintonia si è notata con la direzione musicale di Omer Meir Wellber che, fin dall’ouverture presenta i temi su cui si fonda quest’opera così ricca di contrasti fra pubblico e privato. Le tre note del tempo lento iniziale che identificano nel teatro musicale dell’Ottocento la morte e avanzano reiterate le troviamo ben delineate lungo tutto lo sviluppo dell’opera. Il direttore mostra la sua visione chiara dell’intera partitura fatta di impeto e ripiegamenti assecondando le scene corali senza mai scadere in eccessivi turgori, e cesellando momenti di tortuoso lirismo privi di quei languori che qui sarebbero imperdonabili. Dalla sua bacchetta scaturisce una tarantella nervosa e carica di funesti presagi, e un ferreo controllo gestisce le dinamiche del concertato finale del secondo atto e il potente ensemble che ne chiude il terzo. Ottima è la prova di orchestra e coro, compagine questa che si fa sempre più solida grazie alle cure di Ciro Visco.
Wellber sostiene inoltre le voci che ha a disposizione riuscendo anche a metterle in riga come nel caso di Erwin Schrott, Procida misurato e mai intemperante oltre che vibrante in Et toi, Palerme del secondo atto. Tra l’altro il basso baritono si merita un plauso speciale per aver cantato l’aria sulla barca ondeggiante sospesa a diversi metri da terra. Dalla platea il rollio era da mal di mare, quindi immaginiamo la difficoltà di rendere l’accorato atto d’amore verso la città in quelle circostanze. Il fraseggio è sempre molto partecipato e, se pure le discese al grave richieste dalla parte sono in parte faticose, il carisma e l’autorevolezza dell’interprete gli assicurano gli applausi più calorosi della serata.
Monfort, Filippo II in nuce, offre qui i suoi tormenti da boss mafioso in pelliccione e pantaloni di pelle, indebolito però dal rimorso per la violenza inflitta alla madre di Henri, suo figlio naturale, avvalendosi dello splendido timbro di Mattia Olivieri. La voce ha corpo e accenti che si piegano agevolmente allo stile verdiano, ma di certo c’è una qual giovanile baldanza e uno splendore vocale che sopravanzano anche lo squillo e la luminosità tenorile dell’erede ritrovato nel duetto del terzo atto. Subito prima l’aria Au sein de la puissance Olivieri mette in mostra un fascinoso registro centrale e l’innata espressività che poggia su una linea di canto scorrevole oltre che compatta.
Linea di canto che invece in Leonardo Caimi si mostra frammentata nel rendere l’impervia scrittura vocale di Henri. La parte è probabilmente troppo “larga” per il cantante (che pure aveva già affrontato il ruolo alla Bayerische Staatsoper) e le brusche ascese all’acuto risultano alquanto faticose tanto da lasciare una sensazione di crescente fatica con il progredire dello spettacolo ed in particolare nel quarto atto dove, nonostante l’attenzione del podio, la voce non riesce ad emergere sopra il denso strumentale.
Discorso analogo per Selene Zanetti che inizia timorosa nell’aria di sortita mentre più appassionata risuona nel primo duetto con il tenore. La sua Hélène manca in parte di brillantezza nei passi di agilità e forza come nella sprezzante risposta ad Henri nel corso del quarto atto. C’è tuttavia una buona aderenza al personaggio e la capacità di suggerire gli stati d’animo contrastanti che caratterizzano il ruolo forse maggiormente sfaccettato dell’opera.
Qui la recensione del cast alternativo.
Valido contributo allo spettacolo apportano le voci di supporto che compongono il fitto mosaico di comprimari dall’ottima Carlotta Vichi, Ninetta, a Matteo Mezzaro, Thibault, Francesco Pittari, Danieli, Pietro Luppina, Mainfroid, Alessio Verna, Robert e Ugo Guagliardo, Sire de Béthune.
In conclusione lo sforzo produttivo quasi titanico che il teatro ha compiuto, in una prospettiva di ritorno completo alla normalità, sembra aver pagato nei confronti di un pubblico abbastanza conservatore ma che si è riconosciuto nell’impietoso e sferzante ritratto di Palermo concepito in sinergia da Emma Dante e Omer Meir Wellber.
La recensione si riferisce alla prima del 20 Gennaio 2022.
Caterina De Simone