Nekrotzar | Zachary Altman |
Piet il Boccale | Dan Karlström |
Amando | Maya Gour |
Amanda | Magdaléna Hebousse |
Astradamors | Karl Huml |
Mescalina | Helena Rasker |
Venus/Capo della Gepopo | Holly Flack |
Principe Go-Go | Karl Laquit |
Ministro Bianco | Daniel Jenz |
Ministro Nero | Michal Marhold |
Direttore | Omer Meir Wellber |
Regia | Barbora Horáková |
Scene | Thilo Ullrich |
Costumi | Eva-Maria Van Acker |
Luci | Michael Bauer |
Video | Adrià Reixach |
Maestro del Coro | Salvatore Punturo |
Coro e Orchestra del Teatro Massimo di Palermo | |
Nuovo allestimento del Teatro Massimo |
Con Le Grand Macabre di György Ligeti, per la prima volta rappresentato a Palermo, si chiude di fatto la permanenza di Omer Meir Wellber nel ruolo di direttore musicale del Teatro Massimo.I cinque anni trascorsi nel capoluogo siciliano si concludono con un titolo al di fuori del sonnacchioso repertorio riempi-sala, pur tuttavia già annunciato all’inizio della collaborazione tra la fondazione e il direttore israeliano. Occorre infatti ricordare che durante la presentazione alla stampa di Wellber erano state svelate le opere, poco frequentate nella realtà palermitana, scelte per inaugurare le stagioni a venire.
La scure del Covid aveva poi rimescolato le carte e resa necessaria la rimodulazione dei calendari ma la non – opera di Ligeti era sempre rimasta in attesa quale progetto particolarmente significativo. Inizialmente era stato affidato a Graham Vick che già nel Ring e poi con Parsifal aveva promosso il Massimo a teatro di respiro europeo. Scomparso poi il grande regista inglese, Le Grand Macabre ha finalmente visto la luce nella sala del Basile grazie al team artistico guidato dalla regista Barbora Horáková.
Alla terza recita, della quale si riferisce, la prima piacevole impressione è che gli abbonati non abbiano disertato in massa lasciando troppi posti vuoti. Dopo tutto cos’è questa stranezza a metà strada tra teatro dell’assurdo, grand guignol, Singspiel, musical e per di più con esplicite allusioni sessuali? L’approccio con la musica contemporanea, nel contesto di una realtà volutamente sopra le righe nella quale lo spettro dei cattivi comportamenti delinea i personaggi che abitano l’immaginario Breughelland, sembra piacere al pubblico più giovane che difatti rimpolpa le presenze in sala.
Il libretto scritto a quattro mani dallo stesso compositore insieme a Michael Meschke, allora direttore del Teatro delle marionette di Stoccarda, ispirato a La grande ballade du Gran Macabre di Michel de Ghelderode, presenta infatti un bestiario fatto di casi limite tutt’ora di grande attualità nella società contemporanea. Il tutto è concepito da Ligeti secondo la formale struttura di una sinfonia articolata in quattro movimenti che corrispondono ciascuno ad ognuna delle quattro scene di cui si compone l’opera, all’interno delle quali fanno capolino le citazioni ben nascoste da Monteverdi, Beethoven e persino Verdi.
Di sicuro un’orchestra poco avvezza alla presenza massiccia di percussioni, attrezzi non propriamente intesi come strumenti musicali quali i clacson utilizzati per l’ouverture o i campanelli elettrici, ottoni fuori dalla buca e in linea generale ad una scrittura eclettica in ottica post modernista difficilmente potrebbe far fronte a tali sollecitazioni. Nel caso specifico però il percorso compiuto dalle masse artistiche del teatro sotto la guida ferma ed entusiastica di Wellber è certamente virtuoso. Lungo l’arco temporale dei cinque anni il livello medio della compagine orchestrale è cresciuto come dimostra l’esecuzione de Le Grand Macabre, governata con rigore dal direttore che qui dimostra la sua particolare attenzione all’architettura formale di un’opera nella quale fondamentale è mantenere l’equilibrio tra la dimensione grottesca ed esagerata e un certo qual distacco espressivo nella rappresentazione del tema della morte.
La perfetta sinergia tra l’aspetto drammaturgico e quello musicale spicca nell’omogenea resa vocale dell’intero cast al quale la scrittura di Ligeti richiede capacità a tutto tondo di fondere nella performance oltre al canto il falsetto, il parlato, il declamato, il tutto in una dimensione attoriale spinta ben oltre il solito stare in scena tradizionale del cantante d’opera. E se Zachary Altman incarna un Nekrotzar simile più ad un infelice Nosferatu poi gabbato dal troppo vino ingurgitato, Dan Karlström è ottimo tenore buffo che, uomo medio perennemente brillo, governa il ruolo di Piet il Boccale con la giusta leggerezza mentre Holly Flack spicca per l’agio con cui domina la temibile scrittura assegnata al personaggio di Capo della Gepopo.
L’esito felice della serata si deve certamente alla sinergia tra podio e regia poiché Barbora Horakova immagina una sorta di realtà immersiva nella quale non esiste la quarta parete. Il coro, ottimamente preparato da Salvatore Punturo, si dispone ora fuori scena, come previsto in partitura, ora in platea abbracciando idealmente gli spettatori che diventano così anch’essi parte del popolo di Breughelland. Lo stesso Nekrotzar nella scena terza ricompare dal fondo della sala e l’inetto principe Go – Go, lo svagato Karl Laquit, si nasconde in un palco di proscenio dietro un enorme orso di peluche.Il tutto è ambientato in un non luogo ben congegnato dallo scenografo Thilo Ullrich. Come fossimo in un luna park vediamo vagoncini che entrano ed escono dal palcoscenico e una cabina che funge da osservatorio per Astradamors, Karl Huml, e nella quale si consuma l’amplesso mortale fra Nekrotzar e la ninfomane Mescalina, qui una tragicomica Helena Rasker.
La cifra stilisticamente grottesca è poi coadiuvata dai video in bianco e nero di Adrià Reixach che ossessivamente si ripetono sul fondo e dalle splendide luci e ombre di Michael Bauer. I costumi di Eva – Maria Van Acker contribuiscono con acume a tipizzare ogni singolo personaggio nel quale il confine tra genere maschile e femminile non esiste, come dimostrano la coppia di innamorati Amando e Amanda, Maya Gour e Magdaléna Hebousse, qui raffigurati come le due gemelline di Shining, e i due ministri, Daniel Jenz e Michal Marhold, visti come gli ultimi candidati delle elezioni americane.
Il pastiche di azione e musica mantiene intatta la forte componente ironica e, se pure la regista aggiunge una nota più strettamente legata all’attualità esasperando la barbarie quasi involontaria dell’uomo di oggi, l’effetto complessivo è di rispetto del testo nonostante il taglio di parte della scena finale in modo da contenere lo spettacolo in un unicum senza soluzione di continuità.
A conti fatti l’auspicio è che il legame forte che negli anni ha legato Omer Meir Wellber a Palermo, e che ha consentito ai complessi artistici del Teatro Massimo di crescere, si mantenga saldo anche nelle prossime stagioni. Sarà ancora sul podio per Salome fra qualche mese ma ci si augura che in futuro possa ritornare con regolarità.
La recensione si riferisce alla recita del 28 Novembre 2024.
Caterina De Simone