Pianoforte | Maurizio Pollini | ||||
Programma | |||||
Robert Schumann |
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Fryderyk Chopin |
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É ancora vivo nella mia memoria l’addio alle scene in Italia di Alfred Brendel, con un ultimo recital alla Scala nel 2008: un settantasettenne tutto sommato molto in forma, oltretutto agevolato dal fatto di essersi concentrato per buona parte della sua carriera sui classici viennesi. Nel programma di quella sera (che comprendeva anche le Variazioni in Fa minore di Haydn, la Sonata K 533 di Mozart e la Sonata D 960 di Schubert) il pezzo tecnicamente più impegnativo era rappresentato dalla Sonata quasi una fantasia op. 27 n. 1 di Beethoven, difficile ma certo non trascendentale. Brendel anni prima affermava invece candidamente di aver lasciato cadere (a malincuore) dal proprio repertorio un pezzo come l’Hammerklavier, una volta resosi conto di non essere più in grado reggerla. Si tratta, beninteso, di scelte estremamente personali, in cui di solito intervengono anche valutazioni morali di ordine superiore.
La storia dell’interpretazione pianistica è tuttavia piena di ottuagenari – Backhaus, Rubinstein, Arrau, per fare qualche esempio – che hanno mantenuto una freschezza da ragazzini, e ciò grazie ad una felice costituzione fisica, o ad un’impostazione tecnica largamente basata sul ricorso al peso naturale del corpo, o ancora grazie ad una sapiente gestione dei propri tendini e articolazioni.
In questo senso è invece molto difficile parlare oggi di Maurizio Pollini, del pianista dalla carriera ineguagliabile che ha fatto del rigore nella tecnica e nell’interpretazione il tratto peculiare della sua personalità di artista, ma che, doppiata la boa degli ottant’anni, non ha mantenuto purtroppo un’efficienza strumentale ottimale, e ciononostante non ha rinunciato ad eseguire i pezzi del repertorio più impegnativi dal punto di vista puramente fisico. Anche negli ultimi anni Pollini ha continuato a suonare per esempio proprio l’Hammerklavier, pur non essendo più in grado di restituirla in modo accettabile, rispetto almeno alle altre ultime sonate di Beethoven.
Il programma proposto questa sera al Teatro alla Scala è di quelli che Pollini ha amato e frequentato soprattutto negli ultimi vent’anni, impegnativo anche per un giovane, in cui si manifesta la predilezione del pianista milanese per il romanticismo di Schumann e Chopin.
Particolarmente paradigmatica è stata la presenza della Fantasia op. 17, preceduta dall’Arabeske op. 18, eseguita nella prima parte del programma. E’ troppo facile l’assimilazione dei titoli originari della Fantasia (Ruinen, Trophaeen, Palmen, poi, come noto, lasciati cadere) con l’esecuzione di Pollini. Il successo c’è stato, segnato dagli applausi spontanei anche se inopportuni alla fine di ogni movimento, ma sono stati veramente dei trionfi (rectius trofei) sopra le rovine. Nel primo movimento, nonostante le molte sbavature, Pollini riesce tutto sommato a non perdere il focus anche puramente digitale. I problemi veri arrivano con il Massig, la marcia rappresentata dal secondo movimento. Non esiste momento peggiore per chi assiste ad un recital che ritrovarsi a pensare: “dai, forse ce la fa”. Purtroppo è questo che molti avranno pensato in sala, facendo il tifo per il pianista specialmente nell’arduo finale, in cui la maggior parte degli acrobatici salti sono stati cannati, quando un tempo avevano la nettezza rilucente di una lama.
Non tornerò più su questo argomento, se non per registrare che in altri momenti del concerto, in cui il virtuosismo è la cifra dominante, la fatica e gli inceppamenti di una tecnica pianistica ormai logora si sono fatti sentire. Curiosamente Pollini riesce piuttosto bene nei passaggi di doppie note, come nel finale della Ballata op. 52 di Chopin, mentre è in difficoltà in qualche semplice scaletta, come ad esempio in quella finale, veloce ma non particolarmente impegnativa, della Barcarola op. 60.
Fatta questa necessaria tara occorre tuttavia dire che sarebbe sbagliato non tentare di enucleare la cifra artistica di questa serata e capire il messaggio che Pollini ha tentato di comunicare attraverso la sua arte.
Due cose mi hanno colpito in particolare: l’ansia e l’irruenza. Il primo movimento della Fantasia non prende respiro se non quando si arriva al primo Adagio. I momenti più lirici sono eseguiti anch’essi, per quanto possibile, al calor bianco, con una tensione interna che non conosce sosta. Il terzo movimento della Fantasia non ha quell’aura trascendente, eterea e smaterializzata che ogni grande interprete si sente quasi obbligato a conferire, ma una propulsione commovente che bandisce la tenerezza. E se lo Chopin della Mazurca op. 56 n. 3 è rappacificato, discreto, misurato, già nel do diesis basso iniziale della Barcarola (così come già nella Fantasia di Schumann e in altri momenti della seconda parte chopiniana) sentiamo non solo l’ottava, ma tutta la mano calare sulla tastiera. Il tema iniziale della Quarta Ballata è di un’urgenza comunicativa quasi violenta, mai ascoltata anche nello stesso Pollini. Nello Scherzo op. 20 il pianista è ormai veramente provato, e in molte cose l’approssimazione diventa quasi la regola, eppure quando l’ultimo accordo di si minore si dissolve, si vede Pollini alzarsi dallo sgabello con la gerla visibilmente ancora piena. Esita un’ po’, raccoglie tonnellate di applausi, poi, con la generosità di sempre, ancora di Chopin regala una Ballata op. 23 stanca ma sincera.
Per concludere, il recital di questa serata scaligera, è stato, come prevedibile, non un semplice concerto, ma un evento. Pollini non è solo la star planetaria che richiama pubblico in ogni dove, ma è anche particolarmente caro al pubblico milanese, per le sue origini e per quello che ha dato nei decenni alla città, e i milanesi non hanno fatto mancare il loro affetto, sia nella presenza a teatro che – come dicevamo – nel calore degli applausi.
Certo, mi sto ancora chiedendo da dove venga questo coraggio di suonare senza le umanissime rinunce dovute all’età e questa perentorietà nel porgere il messaggio musicale, sia pur nell’imperfezione dei mezzi. L’unica risposta che so darmi è che, giunto nell’ultima parte della sua vita, l’artista non ha tempo da perdere in sottigliezze e languori: quel che deve essere detto è bene che lo si dica subito, qui e ora. E il coraggio di andare avanti in questo mestiere bellissimo, logorante e spesso ingrato, non è altro che il coraggio di vivere pienamente la propria vita, fino alla fine.
La recensione si riferisce al concerto del 28 marzo 2022.
Lorenzo Cannistrà