Voce sola | Barbara Lavarian |
Direttore | Riccardo Chailly |
Maestro del Coro | Alberto Malazzi |
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala | |
Programma | |
Franz Schubert | Sinfonia n. 4 in do min. D 417 "Tragica" |
Giuseppe Verdi | Quattro Pezzi Sacri |
La proposta del Teatro alla Scala di inserire nel programma d’apertura della propria stagione sinfonica una sinfonia di Franz Schubert costituisce non solo l’occasione di ascoltare dal vivo una pagina relativamente rara ma anche un ennesimo spunto di riflessione su una questione tutt’altro che irrilevante, ossia lo Schubert non cameristico. Il compositore viennese ci ha lasciato dieci sinfonie, di cui la Settima scritta in particella e la Decima traspare solo da qualche schizzo; insomma, dell’intero corpus ce ne sono giunte complete otto volendo annoverare fra queste anche la celebre Ottava “Incompiuta”, di queste otto proprio l’Incompiuta è l’unica ad essersi affermata con un certo favore presso il grande pubblico. E tutto il resto?
Si può correttamente dividere la produzione sinfonica di Schubert in due parti: in una le sinfonie dalla Prima alla Sesta e nell’altra quelle dall’Ottava alla Nona. La suddivisione non è arbitraria ed è pure suggerita abbastanza esplicitamente dallo stesso compositore che nel 1823 (vale a dire all’indomani dell’interruzione mai sanata dell’Ottava) scriveva di non avere «nulla per grande orchestra che potrei presentare al mondo con la coscienza tranquilla […] sarebbe dannoso per me presentarmi con qualcosa di mediocre». Il giudizio così severo trae ragione dal fatto che la n. 8 aveva completi solo due movimenti e come tale non poteva essere considerata eseguibile, mentre tutte le sue predecessore erano state scritte proprio con l’intenzione di escluderle dal grande palcoscenico: sarebbe ingeneroso dire che le prime sei sinfonie siano meri esercizi di un giovane autore, ma è corretto inquadrarle come indagini condotte con sorprendente intelligenza e lucidità da parte di chi manifesta interesse nel problema della sinfonia. Il risultato è senza dubbio gradevole e non privo di eleganza, ma si avverte che la penna appartiene a chi non ha ancora qualche parola da spendere sull’argomento. La parola nuova si avverte in nuce nell’Incompiuta e con una chiarezza sfolgorante in quel fulgido capolavoro che è la monumentale Nona.
La Quarta, intitolata "Tragica" dall’autore in un secondo momento, rientra a buon diritto tra le opere che dimostrano un percorso promettente ma ancora in via di sviluppo e la direzione di Riccardo Chailly è eccellente nell’evidenziare il doppio binario su cui scorre la creatività schubertiana in questo momento: la memoria del passato e la propulsione verso il futuro, il solco inevitabile dei maestri e il desiderio di tracciare una propria strada.
Uno sguardo è ancora rivolto ai nomi illustri legati al genere, ad esempio l’Andante conserva quel sentimento affettuoso dell’analogo movimento della Sinfonia n. 39, mentre il clima generale – in contrasto con il titolo – propone qualche eco haydnianamente olimpico; ma è Beethoven il modello a cui Schubert guarda con più insistenza in questa sua Quarta e il dato non è marginale visto che l’impronta beethoveniana non appare nelle prime tre sinfonie, viene spesso evocata in pagine successive sinfoniche e non (basti pensare al memorabile incipit dell’Impromptu op. 90 n. 1). Questa composizione “privata” è un continuo rimando a Beethoven e testimonia in modo disarmante quale impatto deve aver avuto sulla civiltà musicale dell’epoca: la tonalità è quella di do minore, diventata uno degli emblemi del compositore di Bonn dopo la Quinta sinfonia, il tema dell’Allegro vivace del primo movimento quasi ricalca quello del Quartetto op. 18 n. 4, inoltre le sincopi e gli accenti spostati nel Minuetto e la «catarsi tragica» – per dirla con Alfred Einstein – del quarto movimento richiamano in modo esplicito la figura di Ludwig van Beethoven.
Ma se è vero che il tema del primo movimento è di fattura beethoveniana, è altrettanto vero che nello sviluppo del materiale il pensiero è già filtrato in altri lidi, in cui il compositore si volge verso una gestione di dialettico lirismo tra le idee melodiche con una certa libertà nei confronti dell’impianto tonale (la ripresa è in una tonalità diversa da quella iniziale, ad esempio) e con tutti i fantasmi mozartiani il secondo movimento prefigura a modo suo le istanze di uno Schubert molto più consapevole e si avvicina ad alcune istanze dei Moments musicaux più intimi o dell’Improptu op. 142 n. 2. Il modo in cui i quattro movimenti sono stati letti è davvero notevole, sia per l’esecuzione in sé, sia per la capacità di rendere espliciti questi due moti contrastanti, sia per l’aver trovato una cifra che restituisse in modo tanto sincero il particolarissimo clima schubertiano, così ricco di inquietudini ma anche luminoso e sereno, moti dell’anima che non si spostano mai nella tragedia. Si poteva lavorare un po’ di più sulle timbrature – come quell’unisono del primo clarinetto con i primi violini nella cadenza in maggiore all’inizio del quarto movimento che se preso per il verso giusto è una pugnalata al cuore – e non sempre gli ingressi delle famiglie erano bene in asse, ma la lettura di Chailly si è dimostrata intensa e interessante e l’Orchestra del Teatro alla Scala si è prodotta in un’esecuzione di livello, seppur con qualche neo.
Quasi da incisione i verdiani Quattro pezzi sacri, che hanno visto l’ingresso del Coro del Teatro alla Scala – preparato da Alberto Malazzi – in ranghi particolarmente folti. Quattro pagine impervie per motivi diversi, rese ancor più ardue nell’interpretazione dalla tinta particolarissima che le impregna: totalmente oltremondana, irreale, di un superbo non-concreto. In questo senso è abbastanza semplice avvertire la differenza con il Requiem, nonostante i molti e importanti punti di contatto: nonostante la contingenza della dedica ad Alessandro Manzoni, il Requiem si rivolge ai viventi e delinea diversi tipi di morte al di là di quella corporale; una partitura di intensa spiritualità rivolta verso il mondo terreno, se vogliamo. I Quattro pezzi sacri invece sono orientati verso la medesima direzione nonostante l’inesistenza di un progetto unitario e indipendentemente dall’epoca di composizione di ogni singolo brano, vale a dire al di là del mondo fenomenico.
Proprio per il carattere ineffabile e per la natura più “scoperta” i numeri più complicati sono il primo e il terzo, rispettivamente l’Ave Maria per coro misto e le Laudi alla Vergine Maria per coro femminile, entrambi a cappella. L’atmosfera evocata è quella giusta con quella meravigliosa sospensione che riecheggia il modello palestriniano e il colore che si è riusciti a tessere nei due brani mariani senza orchestra è diafano, singolarmente bello, ma manca una direzione netta del fraseggio. Si può chiudere un occhio sulle entrate non precisissime dei singoli membri di ogni sezione (non se si parla di incisione, beninteso), ma non è chiaro dove si vuole andare con i colori, con l’espressione e soprattutto non si investe abbastanza su questi; da ultimo si potrebbe porre una riflessione sulla possibilità di impiegare un numero minore di coristi limitatamente ai due brani in questione, per allontanare un po’ l’allure di coro operistico e avvicinarsi al carattere più intimo e più mistico del coro ecclesiastico.
La riuscita dello Stabat mater e del Te Deum ha raggiunto vette davvero elevate, cominciando dalla compattezza inarrivabile di orchestra e coro, sia come unità distinte sia come massa sonora unitaria. Si dà grande importanza al testo e non potrebbe essere altrimenti dato che lo stesso Verdi ha compiuto un lavoro della massima cura nell’atto di musicarlo: in prima istanza, lo Stabat costituisce un caso abbastanza particolare nella produzione corale dell’Ottocento dato che il compositore ha deciso di non ricorrere mai alla ripetizione di frasi o singole parole (eccettuando l’amen conclusivo) e questo imprime alla sequenza un singolare senso di continuità che facilmente richiama il Falstaff rappresentato solo tre anni prima dell’inizio della stesura di questo nuovo adattamento della preghiera di Jacopone da Todi.
L’ultimo titolo operistico può essere associato anche al monumentale Te Deum per lo scavo operato da Verdi proprio sulle singole espressioni e frasi dell’inno (a questo proposito è memorabile la lettera a Giovanni Tebaldini dell’1 marzo 1896 in cui spiega con dovizia di particolari il come e il perché delle proprie scelte in relazione alle caratteristiche stesse del testo). Quel che l’orchestra e il coro diretti dalla bacchetta di Chailly evocano è una parete di dolore trafitta da lame di luce, un quadro in cui l’intensità e la serenità di queste non fa che esacerbare i conflitti interiori resi straordinariamente evidenti dalla perizia dell’orchestra nel realizzare gli impasti che guardano verso il primo Novecento fino a Stravinskij. Anche il coro è portatore di diverse soluzioni ardite interpretate con autentico misticismo, da incatenamenti armonici inattesi fino ai giochi di imitazione timbrica come la reciproca imitazione di tromba e soprano solista (in questo Barbara Lavarian ha avuto una buona riuscita). Un risultato complessivo davvero eccellente, salutato con calore da parte del pubblico entusiasta.
La recensione si riferisce al concerto del 14 novembre 2023.
Luca Fialdini