Silvia Colasanti | Esercizi per non dire addio, per violino e orchestra |
Ludwig van Beethoven | Concerto per violino e orchestra in re maggiore, op. 61 |
Dmitrij Šostakovič | Sinfonia n. 9 in mi bemolle maggiore, op. 70 |
Orchestra sinfonica di Milano Giuseppe Verdi | |
Violino | Domenico Nordio |
Direttore | Jader Bignamini |
Un recinto dorato entro cui la mente creatrice volontariamente si rinchiude, oppure una gabbia da cui fuggire a gambe levate? È la tradizione, termine troppo spesso abusato – anche in queste righe – come fosse un cappello che sta bene su tutto; che ci si voglia inscrivere nel suo solco, o che ci si voglia distaccarsene, dalla tradizione non c'è scampo. Richiamarsi ad essa è quasi sempre inevitabile quando viene presentato un nuovo lavoro, non senza qualche ragione: il concetto di tradizione permette di riferirsi ad una continuità storica rassicurante tanto per l'istituzione che la propone, quanto per il pubblico che ne fruisce. Oppure di allontanarsene, e in quel caso c'è un'altra grande parola che sta bene su tutto: innovazione.
Sia come sia, con la tradizione occorre inesorabilmente farci i conti; ancor più oggi, che ci portiamo sulle spalle – noi europei – una tradizione musicale plurisecolare. Ne sa qualcosa Silvia Colasanti, che questa tradizione volontariamente abbraccia e usa quasi come fosse una bussola per orientarsi nella grande musica, battendo il suo percorso tra il grande sinfonismo romantico e primonovecentesco e le proprie istanze espressive. Una strada non semplice, ma entusiasmante per chi volesse seguire la compositrice romana. E i milanesi che frequentano gli appuntamenti dell'Orchestra Verdi, di cui Colasanti è compositrice in residenza, ne sembrano entusiasticamente appassionati.
Una recente dimostrazione si è avuta giovedì 24 marzo, con la prima esecuzione assoluta di Esercizi per non dire addio: un concerto per violino e orchestra, il secondo ad essere commissionato dall'Orchestra stessa (il primo, Il canto di Atropo, risale al 2009, quando l'idea di una residenza era molto di là da venire). Presentato dalla stessa autrice come «un pezzo attorno al tema del distacco e della perdita, nel ricordo vivo di quello che si è amato e che si continua ad amare», è un lavoro dal sapore nostalgico, immerso in un'atmosfera quasi demodé con sprazzi di magniloquenza mahleriana alternata a momenti più distensivi. Memoria e nostalgia sembrano coincidere in questo concerto di Colasanti, in cui gli effetti hanno il sopravvento sulla tecnica e il suo linguaggio sembra sciogliersi in un lirismo dal sicuro effetto catartico. Merito anche di Jader Bignamini, direttore dalla guida salda sull'orchestra e soprattutto di Domenico Nordio, a cui è affidato il ruolo di solista.
Non pago, il violinista si è poi cimentato nel concerto per violino e orchestra di Beethoven, uno dei capolavori del genere. Nordio, sguardo quasi ascetico, chino sul leggio, regala un'interpretazione magistrale del concerto. Il suo uso delle pause, degli attacchi, degli “spazi tra le note”, sembra quasi ballare intorno al battito più che seguire il tempo metronomico. Il risultato è una lettura molto personale, in cui i tecnicismi più complessi sono risolti quasi come fossero una questione intima, privata, del musicista, piuttosto che qualcosa da esibire ad un pubblico a dimostrazione del proprio talento. Bignamini mantiene dritta la barra dell'orchestra, senza curarsi di inseguire o aspettare Nordio, perché sa che lo troverà esattamente dove dovrebbe essere; il direttore controlla con cura le agogiche orchestrali e dipinge un concerto quasi in contrasto al violino “mistico” di Nordio: un'orchestra dal timbro scuro e corposo a sostegno di un solista dai colori più nitidi e dallo slancio leggero e vivace.
E se nella prima parte della serata l'entusiasmo del pubblico si è manifestato verso tutti e tre i protagonisti – Colasanti, Nordio e Bignamini – nella seconda metà, gli applausi sono tutti per il direttore e per la sua lettura della Nona sinfonia di Šostakovič. Bignamini accentua i tratti grotteschi del primo movimento, ne esaspera le sonorità aspre, stringe i tempi ad aumentarne l'effetto caricaturale, fino al tripudio da vaudeville impazzito che chiude l'esecuzione. Superlativo.
La recensione si riferisce al concerto del 24 marzo 2022.
Emiliano Michelon