Manon Lescaut | Maria Josè Siri |
Renato Des Grieux | Riccardo Massi |
Lescaut | Massimo Cavalletti |
Geronte di Ravoir | Matteo Peirone |
Edmondo | Giuseppe Infantino |
L'oste | Claudio Ottino |
Il maestro di ballo | Francesco Pittari |
Il musico | Gaia Petrone |
Il sergente degli arcieri | Matteo Armanino |
Il lampionaio | Francesco PIttari |
Un comandante di Marina | Loris Purpura |
Maestro concertatore e direttore | Donato Renzetti |
Regia | Davide LIvermore ripresa da Alessandra Premoli |
Scene | Giò Forma e Davide Livermore |
Costumi | Giusi Giustino |
Luci | Nicolas Bovey |
Videodesign | D-Wok |
Direttore del Coro | Francesco Aliberti |
Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice | |
Allestimento in coproduzione Fondazione Teatro Carlo Felice Genova, Teatro San carlo Napoli, Teatro LIceu Barcellona, Palau de les Arts Valencia |
Produzione dedicata alla memoria di Renata Tebaldi nel centenario della nascita.
“Non posso cantare così, sorry!” La frase perentoria di Alvarez ha fatto, in cinque minuti, il giro del mondo mediatico genovese: titoli, titolini, titoloni ridestano amici e parenti di chi sta in platea, che fanno esplodere i cellulari: che sta succedendo al Carlo Felice? Succede che il tenore ferma tutto, indica la nuvola di fumo che esce dalla locomotiva a vapore in arrivo e, stizzito, abbandona la scena, lasciando dietro di sé una nube altrettanto tossica di improperi, ben udibili anche dopo la repentina chiusura di sipario; e lasciandoci sbigottiti in sala. In buca, immaginiamo Renzetti alle prese con un centinaio di fazzoletti sulla fronte, mentre il pensiero va ai fumi che probabilmente, in quel momento, escono dalle orecchie di Davide Livermore, il regista “capostazione” . E dagli torto…per colpa – pare - del suo treno, salta la prima dell’opera!
Ma no. E’ chiaro che non è così, la colpa non è della bella locomotiva sullo sfondo; tanto è vero che, passa poco, e il teatro prende le distanze da Alvarez, sottolineando che le difficoltà vocali di Des Grieux erano evidenti già da un po’ e che il fumo – per altro già ampiamente sperimentato in prova - non c’entra proprio nulla. Verissimo. Conclusa la prima arietta avevamo tutti il timore che Alvarez non sarebbe arrivato in fondo all’atto: difficoltà di emissione, sforzi, stanchezza: insomma, ci sarà stato anche (tanto) fumo, ma c’era anche poco arrosto. Risultato: treno fermo, sipario chiuso, opera in sospeso, mormorii in sala, imbarazzo nella “stanza dei bottoni”. Che si fa?
Manon Lescaut riprende un’ora dopo, dal principio, con un altro Des Grieux, arrivato di corsa, pure con braccio al collo, a salvare la situazione: Riccardo Massi, tenore del secondo cast, riceve gli applausi di un pubblico piuttosto provato e così si procede: tutti in carrozza, si riparte.
E già che la locomotiva è entrata trionfalmente tra le nostre righe, mettiamoci pure il transatlantico, lo scorcio su Ellis Island e tutto quello che fa lo spettacolo di Livermore, come sempre, peculiare; anche se non solo di impatto visivo si tratta. L’idea registica è, trattandosi di Puccini e trattandosi di Livermore, di ispirazione cinematografica: è basata su un flashback di un ormai vecchio Des Grieux, i cui ricordi lo catapultano nel passato e gli fanno rivivere la sua tormentata e tragica storia d’amore. Lui è a New York, nel reparto di quarantena di Ellis Island in cui cinquant’anni prima è morta Manon, ma in un attimo si ritrova nell’osteria di Amiens, tra studenti, popolane, giovani e fanciulle: la traduzione scenica è la presenza costante di un attore “fantasma”, vestito di bianco (l’ottimo Roberto Alinghieri), che riassiste, questa volta impotente, all'ineluttabile dipanarsi della propria vita. Ecco allora, riprendendo le parole dalle note di regia, un susseguirsi di “primi piani, di carrellate, di scene di massa, in uno scorrere di totali e dettagli che solo la cinepresa può cogliere”. Tutto il cinema pucciniano sul palcoscenico di un teatro. Bello.
Appunti, sinceramente, ne facciamo pochi, a noi è piaciuto anche il ritratto impietoso di Geronte, dipinto nel suo squallore di vecchio satiro alle prese con i propri lussuriosi istinti e immerso nel lusso lascivo di un postribolo, popolato di personaggi ambigui e “fastidiosi”: una visione più realistica e meno tradizionale, che ha sollevato, come era prevedibile, alcune perplessità in sala. Ecco, in quest’ottica provocatoria forse è addirittura poco caricato, rimane un po’ sgonfio e i movimenti delle figure in scena risultano quasi ingessati (come il braccio del tenore). Poi c’è il commento immancabile: “Dov’è il deserto della Luisiana?” E ancora: “Cosa c’entra il reparto di quarantena?” Ma Livermore già se l’aspettava e ha tenuto a precisare, in anticipo, la componente simbolica di questo non luogo, “il deserto della vita che spesso si manifesta anche in luoghi molto affollati, un deserto dell’anima nell’aridità della deportazione”. Che dire? Non fa una grinza, basta che si trasponga tutto nella metafora o, magari, nel delirio della malattia, che ti lascia “sola, perduta e abbandonata”. Una grande emozione, arricchita dall’immagine di Manon sulla parete delle fotografie dei migranti, che appaiono, nel buio della sala, poco prima della chiusura del sipario: suggello di una regia profonda e – manco a dirlo – decisamente non convenzionale.
Ottimo. Ma tutto questo non funzionerebbe se non ci fosse un valido supporto musicale: va bene il cinema, vanno bene scene e costumi – per altro apprezzabilissimi – ma Puccini è sempre Puccini, con le sue impetuose partiture. Coinvolgente l’intermezzo, ricco di lirismo, che è poi l’aspetto privilegiato in tutta l’opera da Donato Renzetti, seguito da un’orchestra molto reattiva. Una lettura attenta alle voci, che ha unito la buca e il palcoscenico in un impasto ben amalgamato, in cui gli ingredienti si mescolano con equilibrio; e attenta anche alla “narrazione”, di cui rimarca, senza enfasi ma con appassionata intensità, gli aspetti psicologici essenziali.
Nel cast si distingue Maria José Siri, che si è trovata con il fidanzato cambiato in un batter di ciglia, ma che si è prontamente adeguata; a parte la facile battuta, è pur vero che ha trovato altro partner anche vocale, il che, normalmente, potrebbe recar con sé qualche subbuglio. Invece è molto convincente la prova per lei, un po’ più tormentata per lui, il nostro Massi/Des Grieux, che è apparso (comprensibilmente) un po’ freddo all’inizio, ma che si è in parte scaldato nel corso della serata, nonostante sia rimasta qualche difficoltà nei passaggi all’acuto; un acuto che arriva, ma che deve riguadagnare smalto da una zona centrale un po’ opaca, in cui c’è poca proiezione “in avanti”. La Siri, tornando a lei, non ha mostrato difficoltà tecniche nell’affrontare l’articolata parte del suo personaggio, la voce scorre ed è omogenea in tutto l’arco di emissione; manca forse un goccio di personalità che scaldi e appassioni la sua Manon.
Buona prova anche per Massimo Cavalletti, bella voce, che interpreta un convincente Lescaut, e per Matteo Peirone, sempre teatralmente efficace, che si dimostra un azzeccato Geronte. Bene anche Giuseppe Infantino (Edmondo) e il resto del cast: Claudio Ottino (l’oste), Francesco Pittari (maestro di ballo e lampionaio), Gaia Petrone (il musico), Matteo Armanino (sergente degli arcieri), Loris Purpura (un Comandante di Marina).
Nota di colore: da alcune poltrone vicine a noi è giunto, palese, l’entusiastico stupore nell’ascoltare il tema di Guerre Stellari durante l’intermezzo. Colpa ancora del fumo che annebbia il cervello? No no, è proprio così, l’ispirazione di Williams viene da qui. Proprio vero: a Puccini mancava solo la cinepresa.
La recensione si riferisce alla Prima del 25 marzo 2022.
Barbara Catellani