Riccardo | Davide Tuscano |
Renato | Hae Kang |
Amelia | Ilaria Alida Quilico |
Ulrica | Danbi Lee |
Oscar | Licia Piermatteo |
Silvano | Giuseppe Todisco |
Samuel | Agostino Subacchi |
Tom | Lorenzo Barbieri |
Un giudice/un servo d'Amelia | Mauro Sagripanti |
Direttore | Guseppe Mengoli |
Regia | Daniele Menghini |
Scene | Davide Signorini |
Costumi | Nika Campisi |
Luci | Gianni Bertoli |
Maestro del Coro | Pasquale Veleno |
Orchestra Filarmonica Marchigiana | |
Coro del Teatro Ventidio Basso di Acoli Piceno |
Nell’infinita querelle che vede i fautori delle regie “tradizionali” invocare il rispetto di quanto prevede il libretto, con le sue didascalie, come mantra assoluto della volontà del compositore, la circostanza che certe scelte siano state dettate dalla censura dell’epoca passa sempre in secondo piano, soprattutto per quanto riguarda le opere di Verdi. In aggiunta al fatto che il suddetto rispetto assoluto, chissà perché debba riguardare solo scene e costumi, ed è quindi necessario che, poniamo il caso, ne Il Trovatore si debba assolutamente vedere in scena la Biscaglia al principio del secolo XV ma sorvolando tranquillamente sul fatto che lo stesso libretto definisce Manrico “giovinetto” dalla presumibile età di 16 anni perché “involato al suo castello, son tre lustri” secondo le parole del Conte di Luna, e quindi non ponendosi il minimo problema su eventuali tenori attempati o fisicamente “di sostanza”. Esempio preclaro di ambientazione aggiustata per motivi censori rispetto all’idea originale è il Rigoletto, ma anche Un ballo in maschera non scherza: come noto, dall’originale ambientazione alla corte svedese di Gustavo III, Verdi dovette passare prima alla Pomerania seicentesca per Napoli e poi definitivamente al Massachusetts all’epoca delle colonie inglesi per Roma. E in che ambientino raffinato, per giunta: una corte razzista e popolata di congiurati, dove il governatore Riccardo spasima per la moglie del suo segretario, la quale moglie si reca da una supposta strega per avere una pozione che le faccia passare l’infatuazione per Riccardo, e riceve l’indicazione di crearla andando a cogliere un’erba magica in un cimitero in piena notte.
Che dunque una simile vicenda risulti pienamente intellegibile nella sua cupezza mascherata dalla fatua frivolezza del ballo in maschera finale è pieno merito dell’allestimento creato da Daniele Menghini per il Festival Verdi 2024, e che è ora transitato per i teatri della Rete Lirica delle Marche che l’ha coprodotto. Sull’impianto generale non possiamo che concordare con quanto scritto da Patrizia Monteverdi in occasione del debutto: “La scena fissa ideata da Davide Signorini ricorda la sala di un vecchio teatro, con le doghe lignee delle pareti usurate e rotte. Il teatro nel quale il tormentato Riccardo recita il suo ruolo di sovrano gaudente e trasgressivo, leggero come il palloncino festaiolo che volteggia davanti al sipario chiuso durante il Preludio. Ma questa atmosfera costantemente esagerata, che il disegno luci di Gianni Bertoli scolora con toni nebbiosi e tristi, cela e forse tenta di compensare il problema serio e irrisolvibile dell'amore proibito che costerà al sovrano la vita. Nella sua corte aperta trasgressiva Riccardo ha il viso coperto di cerone bianco e di questo colore dipinge il viso di Amelia che gli ha appena confessato di ricambiare il suo amore, ma non si può: Amelia appartiene al mondo di quelli che si vestono con gli impeccabili abiti borghesi di Renato, ma anche dei due cospiratori Samuel e Tom. In quel mondo "politicamente corretto" Riccardo ci si ritrova solo per un attimo: quando prende la decisione ragionata di rinunciare per sempre ad Amelia allontanandone il consorte. I costumi di Nika Campisi sono una parte fondamentale della narrazione, dallo stile elisabettiano sino ai giorni nostri, con fantasia ed ironia, ogni figura in scena ha la sua caratterizzazione. Il più spettacolare è l'abito di Ulrica, bello e perfetto come quello di una regina cinquecentesca, che stride clamorosamente con i lunghi capelli bianchi e radi, la faccia pallida, gli inquietanti occhi da cieca”
Aggiungiamo solo che sono tanti i particolari che rivelano la piena comprensione del testo verdiano da parte del regista, a cominciare dal già citato cerone bianco che ricopre la faccia di Riccardo e con il quale poi segnerà Amelia durante il duetto d’amore: atto di unione che trascende la fisicità nuda e cruda perché elemento distintivo del governatore, e infatti proprio toccandola e accorgendosi del cerone Renato potrà dire “Così mi paga, se l'ho salvato! Ei m'ha la donna contaminato”. Il minuzioso lavoro di regia sugli interpreti può così essere sempre in consonanza con la musica e non fine a sé stesso, dalla presenza in scena del neonato figlio di Amelia e Renato, a ricordare sempre quanto Amelia sia combattuta fra l’amore di donna e quella di madre, alle figure di Samuel e Tom ondivaghe e sbeffeggianti in giacca e cravatta, praticamente perfette nel finale del secondo atto e nella scena della congiura. Dovere di cronaca impone di rilevare qualche particolare un po' troppo creepy qua e là (Amelia che nella sua aria a inizio secondo atto canta uno “spettro di sotterra si leva... e sospira! Ha negli occhi il baleno dell'ira e m'affisa e terribile sta!” e su una montagna di teschi si vede effettivamente una testa umana muoversi compulsivamente con gli occhi sbarrati), ma il giudizio generale non può che essere più che soddisfacente, concordante con la visione che Menghini ha di quest’opera come scritto nelle note di regia: un monumento al piacere sopra cui aleggia l’ombra della morte.
Previsto solo per la recita fanese che qui si recensisce, il direttore Giuseppe Mengoli ha mostrato una notevole capacità di ricerca delle “tinte” che devono caratterizzare l’opera, dalla puntuta ma solo apparente giovialità del primo atto alla drammaticità del secondo atto, con ottima realizzazione delle dinamiche di suono durante le arie più celebri, in special modo “Morrò ma prima in grazia” e “Eri tu!”. Interessanti anche certe scelte di tempi, in special modo nel duettone d’amore che ha avuto un’apprezzabile serratezza iniziale, come se non ci fosse posto per troppi languori nell’agnizione di un amore tormentato e impossibile, che si è poi espansa in un’oasi di liricità alla confessione “Ebben, sì, t’amo”. Scappa qua e là qualche decibel di troppo, chiaramente motivato dalla inevitabile poca confidenza con l’acustica del teatro, ma con la qualità di suono offerta dalla Filarmonica Marchigiana che non deborda mai in fracasso fine a sé stesso.
A Davide Tuscano non fanno certo difetto la solarità del timbro, che si mantiene omogeno su tutta la gamma, né la tecnica e la musicalità, che gli permettono fra l’altro esattezza d’intonazione nel salto dal la bemolle al do basso su "Irati sfidar" e "Le forze del cor" durante la barcarola, effetto scritto e raro a sentirsi anche da interpreti più blasonati. L’interpretazione restituisce poi un Riccardo appassionato e prorompente nei suoi slanci d’amore, grazie a una varietà di fraseggio che rivela già una buona maturità artistica. Bisognerebbe verificare quanto, in teatri eventualmente più grandi e meno generosi di acustica, non ci sia il pericolo di spingere troppo la voce soprattutto nei passi più “infuocati” e al limite dell’attuale volume di voce del cantante, come “Si rivederti Amelia”: resta il fatto che, per quanto sentito a Fano, la presa di ruolo è stata degna del maggiore interesse. Volume che invece è decisamente il punto forte della vocalità di Ilaria Alida Quilico, piena, compatta e con una naturale brunitura di timbro. Tutti superati gli scogli vocali del personaggio, con si naturali e do che squillano perentori sul tessuto orchestrale, ma si fa valere anche l’interprete, con l’accento che scandisce l’angoscia dell’ “Orrido campo” che si stempera poi nell’amore materno di “Morrò ma prima in grazia”. Tecnicamente resta giusto da sistemare qualche salita all’acuto con portamenti fin troppo accentuati, ma è veramente poca cosa nell’assetto generale di una vocalità già ben indirizzata al repertorio lirico spinto.
Hae Kang sfoggia una dizione italiana di tutto rispetto, applicata a una vocalità indubbiamente rigogliosa e timbrata di cui fa sfoggio già da “Alla vita che ti arride”, con una sfolgorante puntatura al la bemolle. Si percepisce anche la lodevole ricerca di sfumature e chiaroscuri per evidenziare il passaggio dai sentimenti di amicizia a quelli di vendetta per Riccardo, pur nella sensazione, a volte, di una leggera meccanicità tipica dei cantanti di area orientale: ma anche nel suo caso sono rilievi che non intaccano la positività della prestazione. Molto brava Licia Piermatteo, che piroetta nella parte di Oscar senza il minimo sospetto di petulanza e con variazioni di bell’effetto in “Saper vorreste”. Perfetti scenicamente e vocalmente nelle rispettive parti di Samuel e Tom Agostino Subacchi e Lorenzo Barbieri, e ben a fuoco anche Giuseppe Todisco come Silvano e Mauro Sagripanti nel doppio ruolo di servo di Amelia e Giudice (che articola la citata fin troppo a sproposito frase “dell’immondo sangue dei negri” con l’effetto repulsivo dovuto).
In definitiva le uniche vere perplessità derivano dalla prova di Danbi Lee come Ulrica, pure destinataria di lusinghieri giudizi nel debutto bussetano: nella recita che qui si recensisce, tuttavia, la voce è apparsa in debito d’intonazione nelle salite ai la naturali durante “Re dell’abisso”, i fiati decisamente accorciati, il timbro un po' troppo chiaro per la parte (col risultato che nello scambio di frasi con Amelia si sentiva il bizzarro effetto di una voce più scura da parte del soprano). Magari è possibile che ci fosse uno stato di forma non adeguato, perché l’accento e la presenza scenica sono riusciti comunque a rendere il personaggio. Il Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli, da poco sotto la guida di Pasquale Veleno, si è ritagliato un buon successo complessivo.
Teatro pieno e plaudente con tutti gli artisti alle uscite finali.
La recensione si riferisce allo spettacolo del 30 novembre 2024
Domenico Ciccone