Canio/Pagliaccio | Sergio Escobar |
Nedda/Colombina | Anastasia Bartoli |
Tonio/Taddeo | Ernesto Petti |
Beppe/Arlecchino | Christian Collia |
Silvio | Leon Kim |
Primo contadino | Alessandro Frabotta |
Secondo contadino | Moreno Patteri |
Direttore | Domenico Longo |
Regia | Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi |
Scene | Cristina Cherchi, Andrea Gennati, Michela Iaquinto, Virginia Zucca |
Luci | Andrea Ledda |
Costumi | Luisella Pintus |
Maestro del coro | Giovanni Andreoli |
Orchestra e Coro del Teatro Lirico di Cagliari |
Premessa: una stagione estiva di appena tre titoli (un’opera, un balletto e un'altra rappresentazione dei Carmina Burana, integrati da alcuni concerti in decentramento) annunciata solo a metà giugno e organizzata al chiuso del Teatro Lirico di Cagliari non può nascere sotto i migliori auspici. Se a un simile gap di partenza si aggiunge che l’unico appuntamento operistico di questa estate in tono minore è un non certo memorabile allestimento di Pagliacci, peraltro già messo in scena dal Teatro Comunale di Sassari nel 2019, le ragioni della modesta risposta di pubblico riscontrata in occasione della “prima” appaiono facilmente individuabili.
Anche sorvolando sulla scelta minimalista – e giustificata dalla invero discutibile esigenza di esaltare “la qualità musicale e la completezza teatrale” dell’opera - di non abbinare il capolavoro di Leoncavallo alla rappresentazione di altre pagine del verismo italiano, non si può non rilevare come lo spettacolo curato da Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi (con scene di Cristina Cherchi, Andrea Gennati, Michela Iaquinto, Virginia Zucca; costumi di Luisella Pintus; luci di Andrea Ledda) catturi poco l’occhio dello spettatore.
Il paesaggio utilizzato come sfondo e i disadorni palazzi collocati ai lati della scena (omaggio all’arte pittorica di Sironi e Casorati) non esaltano la drammatica vitalità di una vicenda che dovrebbe far ribollire sangue e cuore, e che invece finisce con lo scolorire troppo presto in una scontata sensazione di “già visto”, alimentando l’inevitabile rimpianto per le rutilanti atmosfere dell’allestimento di Zeffirelli o per l’urticante degrado di cui era impregnata la regia di Lavia, nelle ultime produzioni di Pagliacci proposte a Cagliari nel 2013 e nel 2020. Non mancano poi le incongruenze sul piano rappresentativo: il “sentiero” per cui fugge Silvio si rivela un vicolo cittadino; Tonio deve badare a un somarello del quale non c’è traccia sul palco (i pagliacci entrano nel paese a piedi…), come non vi è traccia del banchetto vagheggiato da Arlecchino e Colombina all’apice delle loro effusioni. Di buon impatto la proiezione iniziale nella quale si richiama il fatto di sangue realmente accaduto a cui l’opera è ispirata: fatto di sangue peraltro ormai noto, anche al pubblico meno esperto.
Non minori criticità adombrano il profilo squisitamente musicale: criticità che gravitano sia sulla direzione di Domenico Longo – il suono della grancassa copre a tratti quello degli altri strumenti, e in alcuni passaggi di “Stridon lassù” la voce del soprano risulta letteralmente sommersa dall’onda di suono che promana dal golfo mistico – sia sulla resa dei cantanti. Dotato di un timbro chiaro che generalmente non si attaglia ad un ruolo da vecchio brutale come quello di Canio, Sergio Escobar sfoggia comunque mezzi importanti che gli consentono di regalare qualche buon momento, come il “si naturale” di “a ventitre ore” o il “si bemolle” di “No, Pagliaccio non son”. A mancare è stato lo scavo psicologico, il dolore lacerante, la sete di vendetta, la febbrile volontà di spezzare la soffocante sovrapposizione tra teatro e vita da cui dovrebbe essere animato un personaggio che invece il tenore spagnolo non riesce ad elevare dalle sabbie mobili della genericità: il “Vesti la giubba” quasi scivolato via nell’indifferenza generale è la cartina di tornasole di una serata poco felice.
Una genericità dalla quale fatica a distaccarsi anche la Nedda di Anastasia Bartoli, protagonista comunque di una prova in crescendo: quasi irretita dai passaggi più impervi di “Stridon lassù” (nei quali, come accennato, la voce a tratti fatica a superare la barriera dell’orchestra), il giovane soprano fiorentino risolve con apprezzabile sicurezza tanto il duetto d’amore con Silvio, quanto i momenti autenticamente drammatici della scena finale.
Credibile il Silvio di Leon Kim, corretto il Beppe/Arlecchino di Christian Collia, la palma del migliore in campo spetta senza ombra di dubbio a Ernesto Petti, capace di confermare ancora una volta le sue caratteristiche di baritono dotato di una natura invidiabile, di un timbro fascinosamente brunito e di acuti solidi e sonori che rendono il suo Prologo il momento più riuscito della recita.
Buona la prova del coro guidato da Giovanni Andreoli, la locandina è completata da Alessandro Frabotta (Primo contadino) e Moreno Patteri (Secondo contadino).
La recensione si riferisce alla "prima" del 23 giugno 2022
Carlo Dore jr.