La Duchessa | Sophie Marilley |
L'elettricista Il gigolò Il cameriere Il ficcanaso Il fattorino |
Timur |
La cameriera L'amica L'amante del Duca La ficcanaso La giornalista di cronaca rosa |
Alison Scherzer |
Il direttore dell'hotel Il Duca L'addetto alla lavanderia Un ospite dell'hotel |
Graeme Danby |
Direttore | Timothy Redmond |
Regia | Julien Chavaz |
Scenografie | Anneliese Neudecker |
Costumi | Severine Besson |
Light design | Eloi Gianini |
Orchestra Haydn di Bolzano e Trento |
Si chiude “Larger than life”, l’Opera Festival 2022 della Fondazione Haydn di Bolzano e Trento. La rassegna operistica di quest’anno, come suggerisce il titolo, era incentrata su personaggi storici forti, le cui biografie sono state connotate da valori più alti delle loro stesse vite.
Se questo fil rouge funziona con Falcone di Nicola Sani e con Toteis di Manuela Kerer, incentrata sulla figura della militare Viktoria Savs, la matassa si ingarbuglia con l’ultimo titolo in cartellone, Powder Her Face di Thomas Adès. Com’è noto, l’opera è basata sulla figura di Margaret Campbell, divenuta famosa suo malgrado per la burrascosa causa di divorzio dal secondo marito, il Duca di Campbell. Al processo, quali prove dell’infedeltà della consorte, portò una lista di ottantotto amanti e delle polaroid che ritraevano la moglie nuda in pratiche che non lasciavano adito al dubbio: questi scatti le valsero l’infelice epiteto di “Dirty Duchess” con cui è nota tuttora.
Se l’allestimento rappresentato al Teatro Comunale di Bolzano avesse indagato di più il bieco maschilismo dell’epoca, che aveva messo alla gogna la donna (la quale si ritrovò ben presto sul lastrico e abbandonata da tutti, mentre invece non subirono processi i suoi amanti e partner sessuali, tra cui anche l’ex genero di Churchill, Duncan Sandys), probabilmente Powder Her Face avrebbe avuto un motivo più che valido per figurare in un cartellone dedicato a personaggi del calibro del magistrato siciliano e della soldatessa austriaca.
L’allestimento di Julien Chavaz importato da Friburgo, tuttavia, non coglie la palla al balzo e si sforza di rientrare nel solco di una tradizione esecutiva dell’opera molto minimal, come suggeriscono le scene di Anneliese Neudecker, i costumi di Severine Besson e il tutt’altro che scontato disegno luci di Eloi Gianini, che cala l’opera in un’atmosfera onirica. Il linguaggio registico e drammaturgico non brilla particolarmente per coerenza: mentre la famosa scena della fellatio viene risolta in maniera più “casta”, con la Duchessa che nemmeno si avvicina all’inguine del cameriere il quale si abbassa appena i pantaloni per spargere in aria del fumo (metafora del liquido seminale?), nella telefonata che precede il loro incontro la donna si struscia languidamente la cornetta del telefono nelle parti intime. Qualche guizzo registico si avverte nel finale, poco prima dello sfratto della Duchessa dall’hotel, che dialoga con i suoi riflessi allo specchio, impersonati dagli altri cantanti vestiti e truccati come lei.
Se non altro, la compagine musicale riserva qualche bella sorpresa, a cominciare dalla direzione di Timothy Redmond alla guida dell’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento. Il direttore inglese asseconda la tinta schizofrenica dell’opera, esaltando i diversi stili musicali che la caratterizzano scena per scena a partire dalla spumeggiante Ouverture, dando particolare risalto agli interludi che accompagnano lo scorrere degli anni e il passaggio d’epoche.
Coesa la compagnia di canto capitanata da una Sophie Marilley perennemente in scena e sottoposta a un tour de force attoriale molto impegnativo: il mezzosoprano svizzero si trova a suo agio nel ruolo della Duchessa originariamente concepito per soprano drammatico, dando voce a una sorta di Carmen malandata, invecchiata, priva ormai di ogni fascino ma non di carisma.
Bene anche Alison Scherzer, soprano soubrette vispa e brillante, che affronta senza colpo ferire i cinque ruoli diversi affidati alla cameriera, accomunati tutti quanti dalla tessitura funambolica e acuta.
Anch’esso alle prese con cinque personaggi diversi, il tenore kazako Timur (nome d’arte di Timur Bekbosunov) esibisce uno strumento vocale non robustissimo ma ben proiettato.
Graeme Danby si distingue principalmente per la sua presenza scenica, dato che i ruoli affidati al basso-baritono sono quasi tutti caricaturali (l’arringa del giudice, le titubanze del Duca cornuto) o al limite del parlato.
Applausi tiepidi e non più che cortesi da parte di un pubblico non particolarmente numeroso.
La recensione si riferisce alla recita del 25 marzo 2022.
Martino Pinali