Tenore | Francesco Meli |
Direttore | Marco Armiliato |
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino | |
I Lombardi alla prima crociata | La mia letizia infondere |
I due Foscari | Notte, perpetua notte... Non maledirmi o prode |
Macbeth | O figli... Ah, la paterna mano |
La battaglia di Legnano | O magnanima e pirima... La pia materna mano |
Luisa Miller | Oh fede negar potessi... Quando le sere al placido |
Il Trovatore | Ah sì ben mio coll'essere |
Simon Boccanegra | O Inferno...Sento avvampar nell'anima |
Un ballo in maschera | Forse la soglia attinse |
La forza del destino | La vita è inferno all'infelice... O tu che in seno agli angeli |
Aida | Se quel guerrier io fossi... Celeste Aida |
Otello | Dio! Mi potevi scagliar |
Esiste davvero il “tenore verdiano”? Il cantante che “per timbro, colore, estensione e peso della voce è ritenuto particolarmente adatto ad interpretare i personaggi tenorili nelle opere di Giuseppe Verdi”, personaggi destinati a “distaccarsi gradualmente dalla loro estrazione post-belcantistica per indirizzarsi da un lato verso lo stile tipico del tenore acuto del Grand-Opèra nelle opere revisionate o composte per Parigi e dall’altro verso una vocalità più eroica e drammatica, di gusto tardo-romantico, nel repertorio verdiano”? O si tratta solo “di un mito che qualcuno, fra gli studiosi, mette in dubbio, considerandolo una leggenda”?
Il quesito ricavabile dalla presentazione di Giovanni Vitali acclusa al book di “Prima Verdi” costituisce la più interessante direttrice per la guida all’ascolto dell’album che Francesco Meli (con lo splendido Marco Armiliato alla guida dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino) dedica alle principali arie del Cigno di Busseto. Un album destinato a rappresentare, nella prospettiva del critico, una duplice occasione: l’occasione per riflettere, senza schermi e senza sconti, sulle caratteristiche vocali di quello che, a buon diritto, viene considerato il più importante tenore italiano del momento; l’occasione per valutare se Meli possa davvero incarnare il modello del cantante verdiano, nell’intero percorso evolutivo a cui si è poc’anzi fatto cenno.
Ebbene, il disco fa obiettivamente emergere i pregi del tenore genovese, pregi derivanti dalla assidua frequentazione del repertorio belcantista nella prima parte della carriera (il suo Nemorino, il suo Ernesto ed il suo Elvino trovano pochi eguali nel panorama attuale): timbro affascinante, voce molto sonora, grande propensione a “scavare” tra le pieghe del personaggio, ricerca dei colori e uso dei piani da vero “numero uno”. Pregi esaltati dalla nobiltà di accenti che ammanta “La mia letizia infondere” e “La pia materna mano”, dalla dolorosa introspezione in cui si risolve “Ah la paterna mano”, da alcune frasi cantante a filo di labbra tanto nell’aria di Rodolfo nella Luisa Miller (“Allor ch’io muto, estatico/dai labbri suoi pendea”) quanto in quella di Jacopo nei Foscari (“Me pure sol per frode/vedi quaggiù dannato”).
Pochi dubbi, insomma: nei protagonisti del “primo Verdi” (come nei ruoli di Alfredo o dello stesso Duca di Mantova) Meli trova il proprio terreno d’elezione. Ma, si diceva, il tenore verdiano si evolve, e questa riflessione non può prescindere dai difetti che condizionano l’ascolto del disco nelle pagine più eroiche in esso proposte: difetti identificabili in un persistente vibrato largo (percepito soprattutto nelle arie di Trovatore e della Forza del destino) e in acuti poco squillanti (come nell’attacco di “O inferno” nel Boccanegra).
E se un Riccardo Warwick molto riflessivo ma poco straziato non pregiudica il “Ma se m’è forza perderti” (il “Sì, rivederti Amelia” non è compreso nel cd), assai meno convincenti risultano un Radames impegnato in un “Celeste Aida” piena di mezzevoci sognanti ma priva del “sacro fremito di gloria” e un Otello che propone un “Dio, mi potevi scagliar” nel quale la rassegnazione sembra prevalere, fino al si bemolle finale, sugli accessi di furia obiettivamente richiesti tanto da Verdi quanto da Shakespeare al personaggio del Tragico Moro.
In definitiva, l’album di Meli si rivela un prodotto interessante, ricco di spunti, destinato però a risolversi nell’ennesimo (dall’epoca d’oro dei vari Bjorling, Bergonzi e Tucker) appuntamento mancato con il “tenore di Verdi”, inteso nella sua integrale evoluzione: quasi a voler confermare, sempre riprendendo l’introduzione di Vitali, la posizione di quegli studiosi che considerano il modello della voce tenorile verdiana alla stregua di una leggenda destinata a rimanere tale.
Carlo Dore jr.