Giuseppe Morino
"Se tante volte (sic) chiamasse il Maestro Muti della Scala e chiedesse del tenore Giuseppe Morino...beh, sono io". La frase, rivolta a Rino, proprietario del locale, è decisamente strampalata, considerando che sono le 20, non c'è recita e non si capisce bene per quale motivo il Maestro Muti dovrebbe chiamare. Forse per chiedere l'indirizzo della pizzeria ed unirsi al gruppo? Mah?! Svelo l'arcano: siamo alla "Vecchia Napoli" in via Chavez dove, all'epoca, si mangiava la migliore pizza di Milano. È il 1987 e, complice l'amico Davide Pelucchi, grande estimatore del tenore di Assisi, ci si ritrova con il divo per una chiacchierata, come si diceva un tempo, con le gambe sotto il tavolo.
L'esordio, come abbiamo visto, è quello che è, ma l'ego dei tenori non conosce limiti e, quindi, si continua su questa falsariga. Io di qua, io di là, io su, io giu. Insomma, per dirla con Califano, tutto il resto (pizza a parte) fu noia. Intendiamoci, nei miei incontri con i cantanti (tenori in primis) quasi sempre è così. No, nessuno scandalo, credo che sia naturale: per calcare le scene, una certa dose di autocelebrazione ed un ego pletorico ci vogliono. Ma quella sera si esagerò: si parlò di Morino e poi di Morino ed infine di Morino.
Allora facciamo un po' di ordine. Il primo che mi accennò di Giuseppe Morino fu Rodolfo Celletti. Forse era il 1984 e mi disse di aver scoperto un tenore che cantava come Gigli. Perdindirindina, pensai, chissà quale meraviglia. Decisi di andarlo a sentire al Festival di Martina Franca nel Requiem di Cimarosa. Ora, avete presente Gigli? La bellezza della voce di Gigli? Bene, Morino, pur con un registro acuto estesissimo, non era proprio la stessa cosa.
L'anno dopo non andai a vedere la Semiramide, né, quello successivo, sentii il Pirata sempre al Festival di Valle d'Itria. Ascoltai, però, le registrazioni e le mie perplessità aumentarono. Certo, la Semiramide integrale non la aveva, nel Novecento, ancora eseguita nessuno e quindi chapeau. Ma le agilità erano quello che erano e certo non bastava qualche sopracuto qua e là in un buon falsettone. Per intenderci, qualche anno dopo sentii a Nizza Rockwell Blake come Idreno: altro pianeta, credetemi. Quanto al Pirata...alcune belle trovate interpretative e qualche sopracuto sicurissimo ma Umberto Grilli a Treviso nel 1984 mi esaltò maggiormente. E così pure Igniacio Encinas che sentii come Gualtiero a Liegi anni dopo.
Dal vivo ascoltai Morino ancora nell'Alceste alla Scala (c'entrava poco con il ruolo), nei Capuleti e Montecchi sempre in Scala (la sua prova migliore), nel donizettiano Gianni di Parigi (discreto) a Bergamo ed infine con la Ricciarelli, Ghiuselev ed una giovanissima e già splendida Paoletta Marrocu negli Ugonotti scempiati a Novara. Il termine non sembri esagerato e non è riferito a Morino che, pur non avendo la possanza vocale di Corelli, né lo squillo di Lauri-Volpi, fece del suo meglio. No, l'opera di Meyerbeer fu soggetta a tante e tali mutilazioni da sembrare quasi, come si diceva un tempo, un'ampia selezione. In particolare il taglio della "benedizione dei pugnali" fu davvero troppo e Giorgio Gualerzi, che mi era accanto in platea esclamò: "E' come se avessero tolto la gobba a Rigoletto", non immaginando quanto potessero essere profetiche le sue parole... Infine arrivò il CD della Nuova Era, immodestamente intitolato "The King of belcanto" che, chissà perché, mi fa sempre pensare alla rivoluzione Cromwelliana del Seicento con tanto di decapitazione del re... Nel complesso, comunque, alcune cose molto buone, alternate ad altre, beh, diciamo così, discutibili. Il coro della Scala lo aveva soprannominato "il tenore elettrico" per via di un certo qual vibrato stretto che non a tutti piaceva. Personalmente non mi dava fastidio più di tanto, anzi. Il vibrato, in generale, genera emozione. E poi, quanti artisti lo avevano ed hanno fatto carriere strepitose. Mi urtava maggiormente l'apertura di certe note di passaggio a volte veramente eccessiva. Ed è strano che un allievo di Celletti, che ha fondato una buona parte della propria carriera di critico cercando di sminuire un autentico genio come Giuseppe Di Stefano proprio per l'apertura dei suoni, poi non fu in grado di correggere un difetto così palese nel suo allievo. E poi, parliamoci chiaro: la voce di Morino in alto squillava poco ed i sovracuti erano sovente ovattati. Grandi, certo, ma irrimediabilmente ovattati.
Per intenderci, anche Chris Merritt usava, in alto il falsettone, ma squillava eccome. Però, devo dire, forse guidato da Celletti, il tono generale dell'opera lo capiva sempre e le intenzioni erano, a tratti, decisamente più che buone, evocative e, stilisticamente, inappuntabili. Un tenore, per mio conto, che dava il meglio nelle opere romantiche italiane degli anni 30 dell'ottocento, soprattutto nelle nenie o nelle cantilene.
Molte le registrazioni su CD, quasi tutte live. Alcune davvero di buon livello (Maria di Rohan, Il giuramento, Gianni di Parigi), altre decisamente scadenti (Lucia di Lammermoor, Lakmé, Pescatori di perle). Insomma, un cantante che avrebbe avuto tutte le frecce al proprio arco per fare una carriera migliore e più lunga ma che non poteva competere neppure lontanamente con i giganti della sua epoca. E parlo di quelli che praticavano chi più, chi meno il suo stesso repertorio.
Insomma, per dirla con Cesare Pavese in Last blues, to be read some day: qualcuno che tentò, ma non seppe...
Carlo Curami
Giuseppe Morino - "Ah dov'è, dov'è il cimento" - Semiramide di Gioachino Rossini