Josè Carreras
(Barcellona, 5 dicembre 1946)
Non ho mai amato i concerti di canto. O, meglio, non ho mai amato quelli in cui il programma vero e proprio era un optional e si aspettavano con impazienza i bis. Il prototipo di queste esibizioni erano le prove di Edita Gruberova. Il concerto vero e proprio passava quasi sotto silenzio ed era decisamente noiosetto. Poi arrivavano i bis e lì, letteralmente, si scatenavano i fuochi d’artificio con arie pirotecniche tipo Zerbinetta, Olympia o Lakmé. Tutto finiva in trionfo, ovviamente.
I concerti che amavo erano quelli tematici. Ricordo un bellissimo “Dichterliebe” con Theo Adam ed i sei concerti del ciclo shubertiano con l’immenso Hermann Prey, elegante, mai ricercato, aristocratico. Altro che Fischer-Dieskau che, nell’eccesso interpretativo, risultava persino stucchevole.
In quel marzo del 1983 alla Scala si esibiva Josè Carreras. Dopo un Massenet forse eccessivamente virile ed un Respighi emozionante ma poco intimista, con Tosti si toccò l’apice. Applausi a non finire con il buon Cesare Galbiati, loggionista d.o.c. e sempre tra l’alticcio e l’ubriaco, che gridò: “Siamo tornati ai tempi di Di Stefano, bravo Carreras”.
Sorpreso e lusingato, il tenore guardò verso l’alto e face un mezzo inchino per ringraziare. Ecco, se vogliamo capire davvero Carreras bisogna partire da questo gesto. Certo, le sue interpretazioni erano spesso improntate allo stile colloquiale da “bravo guaglione”, ma l’uomo era un autentico signore e legatissimo alla poetica romantica del bel gesto. Quella poetica che Victor Hugo aveva portato all’apice con la celebre battuta del suo Anthony quando il protagonista assassinava l’amante all’approssimarsi del marito e per giustificare la scabrosa scena diceva: “mi resisteva, l’uccisi”.
Insomma, per tornare a Carreras, un poetico hombre vertical che adorava il proprio pubblico e ne era ricambiato. Ogni sua esibizione era un trionfo nonostante sovente abbassasse alcune arie che gli risultavano ostiche in tonalità originale ed una palese difficoltà in zona acuta. Intendiamoci, i suoni c’erano, ma erano spesso fibrosi ed, a tratti, al limite dell’urlo. La voce, però, era di primissima qualità: calda, nobile, pastosa. E l’accento era sempre aristocratico e sincero. Un tenore cui era facile perdonare alcuni difetti perché, a differenza di altri, dava sempre tutto e, soprattutto, comunicava con il pubblico grazie ad un talento interpretativo innato. No, caro Cesare Galbiati, non era quel genio di Di Stefano né come timbro, né come talento interpretativo. Era Josè Carreras: un grande tenore.
Lo ascoltai per la prima volta alla Scala in “Bohème” grazie all’amico Giordano Formenti.
Ricordo poco, ad essere sincero, forse per l’emozione di essere riuscito a portare a teatro Laura Battaglini, la bella della mia classe e grande amore della mia adolescenza. Però una cosa la ricordo: il silenzio attonito del pubblico, di tutto il pubblico nella scena finale. Un silenzio emotivo di chi, a stento, trattiene la lacrimuccia od il singhiozzetto.
Poi venne il don Carlos del bicentenario. In un’opera che metteva in risalto le sue qualità, Carreras fu fantastico. Certo, ricevette pochi applausi, soprattutto rispetto alla Obrastzova che ebbe ovazioni spontanee (non dettate dalla claque, intendo) sia dopo la canzone del velo, sia dopo O don fatale. Ma, si sa, il ruolo è ingrato: un’aria (bruttina) all’inizio e poi solo duetti, terzetti e brani d’insieme.
Venne ancora una recita di “Un ballo in maschera”. Lo aveva già cantato in Scala nel 1975, ma all’epoca portavo i pantaloni corti e non andavo a teatro. Nel 1978 il titolare era Pavarotti, ma Lucianone si ammalò ed a sostituirlo vennero prima Franco Bonisolli e poi Josè Carreras. Oggi sono nomi quasi mitologici, ma non vi stupite: all’epoca era quasi la normalità. Carreras fu fantastico e ricordo ancora le sfaccettature romantiche che seppe imprimere al ruolo.
Sempre in quegli anni, lo ascoltai come don Alvaro in una delle più passionali “Forza del destino” che abbia mai ascoltato: Carreras, Caballé, Cappuccilli, Ghiaurov, Bruscantini e la Nave come Preziosilla. E non dimentichiamo il grande Patané sul podio e la regia immaginifica di Lamberto Puggelli. Serata emozionante, pubblico attonito e silente: allo spezzare della spada dopo il primo duettone tutti trattenemmo il fiato.
Ancora una “Messa da Requiem” nella chiesa di Santo Stefano con un Abbado in stato di grazia ed un Carreras che incantava per la capacità di rendere dettagli solitamente trascurati da altri interpreti. E poi “Andrea Chénier” (sublime nonostante l’abbassamento di tono di alcuni brani), “I lombardi alla prima crociata” in un ruolo che evidentemente sentiva poco e con una regia strepitosa di Lavia e “Carmen” dove, subentrando a Domingo, non ebbe molto aiuto dalla sua partner, una volgarissima e triviale Agnes Baltsa, restando sostanzialmente estraneo al mondo di Bizet. Ed infine “Pagliacci” dove fu un Canio infuocato ed estremamente drammatico ad onta di un registro acuto ormai decisamente problematico.
Poi la malattia. Ed è inutile girarci intorno: nonostante gli sforzi successivi, per me la carriera di Carreras finisce qui. Dopo la guarigione tornò alla Scala con un emozionantissimo concerto nel quale, al suo apparire, il pubblico gli tributò un applauso lunghissimo, intenso e caldo che sembrava dire: Bentornato Josè. Però la voce aveva perso buona parte delle sue attrattive timbriche e gli acuti a tratti erano davvero squarciati.
Inutile riassumere il suo percorso artistico: cantò in tutti i teatri più importanti del mondo ed è da considerare per il periodo prima della malattia, un tenore storico. Forse non il migliore, ma sicuramente uno dei grandi dell’epoca.
Le sue caratteristiche furono un timbro affascinante ed inconfondibile ed una comunicativa sincera e personalissima.
Fu molto attivo in ambito discografico: personalmente ritengo da antologia due incisioni dirette da Karajan ovvero l’ “Aida” ed il “Don Carlos”.
Difficile pensare ad un Radames così sfumato ed intenso, nonostante la componente eroica del ruolo gli fosse parzialmente estranea. Lo stesso discorso vale per il “Don Carlos”, uno dei suoi cavalli di battaglia.
Molto valida anche la “Tosca”, però la prima, quella diretta da Colin Davis che si avvale anche di una Caballé in stato di grazia e di un Wixell straordinario, uno dei migliori baritoni di quegli anni.
Interessanti anche “La battaglia di Legnano” ed “I due Foscari” diretti da Gardelli nell’ambito dell’integrale del primo Verdi per la Philips.
A confermare la sua vocazione verdiana contribuisce, ovviamente, anche il “Simon Boccanegra” diretto da Abbado, ma il ruolo di Adorno gli conveniva solo a tratti.
Da ricordare infine il poetico Calaf con la Caballé nell’incisione di Turandot diretta da Alain Lombard. Certo, se pensiamo che il ruolo fu pensato per Lauri-Volpi (almeno secondo una testimonianza di Renato Simoni) siamo decisamente agli antipodi. Però a me il suo Calaf piace. E tanto.
Vi consiglio anche di ascoltare su youtube il suo “Rigoletto” con la Wise e Quilico padre.
Il primo interprete del duca fu Raffaele Mirate, tenore di forza. Ecco: a mio avviso il Carreras di quegli anni, siamo nel 1973, si avvicina molto a come Verdi aveva concepito il duca di Mantova.
Un ultimo aneddoto: si racconta che a Parigi, all’Opéra durante una recita mi pare di “Bohème” al pubblico che scompostamente contestava l’amata Ricciarelli, Carreras gridò: “Moi, José Carreras, je vous dis merde” andandosene con la sua Katia e giurando che mai più avrebbe messo piede nella Ville Lumière.
Che io sappia mantenne il giuramento. Grande tenore, grande uomo. Chapeau.
Carlo Curàmi
debutto alla Scala nel ruolo di Riccardo - Un ballo in maschera di G.Verdi