Bonaldo Giaiotti
(Ziracco, 25 dicembre 1932 – Milano, 12 giugno 2018)
A Milano, negli anni 70 quando si parlava di dischi di classica, l'unico nome possibile era Stradivarius. Quello vero, intendo, quello in via Stradivari, di fronte allo studio dentistico dell'amico Andrea Merli. La Bottega discantica era ancora di là da venire e Stradivarius era l'unico negozio che proponeva i mitici LP "pirata", ovvero le etichette (una su tutte Morgan, più pirata di così....) che stampavano di nascosto le registrazioni "live" dei mitici cantanti o delle opere rare che, nella maggioranza dei casi, avevano avuto poca o punta fortuna discografica. Ricordo ancora con emozione il primo LP che comprai: un Andrea Chénier con Tucker, la Milanov (donna dal carattere molto personale e probabilmente non bellissimo ma sublime soprano) e Warren... Flavia Oppizzi, la proprietaria, organizzava spesso degli incontri con cantanti, direttori, critici musicali, giornalisti e semplici appassionati. Una sorta di salotto della lirica, insomma. Quando venne Bonaldo Giaiotti a raccontare la sua carriera eravamo davvero pochi. Io, Luca Gorla e pochi altri: in tutto ci si poteva contare sulle dita di una mano. Eppure fu una serata piacevolissima dove il grande basso raccontò aneddoti non solo canori, canticchiò per far capire qualche passaggio ostico e, soprattutto, si divertì (e ci divertì) ad imitare i colleghi bassi da Siepi a Christoff a Ghiaurov. Fu fantastico. Era meglio del povero Alfredo Papa, il migliore imitatore italiano di sempre. Uscimmo dal negozio più sollevati e con l'animo sereno. Pochi giorni dopo, al Teatro Nazionale fu organizzato uno di quei "concertoni" (li si chiamava proprio così) in cui si esibivano una pletora di cantanti chi più, chi meno di vaglia. Di quella esibizione ricordo poco: forse al pianoforte sedeva Edoardo Müller. Rammento Gianfranco Cecchele e Benito di Bella impegnati in un muscolare duettone della Forza del destino...E poi c'era Giaiotti che cantò "Di sposo, di padre" dal Salvator Rosa di Carlos Gomes. Inutile dire che fu semplicemente splendido. L'accento nobile, la voce non artefatta da autentico basso, la limpidezza e la portata del suono mi colpirono non poco. Ovviamente, da appassionato, conoscevo i suoi dischi. Il Timur della Turandot con la Nilsson e Corelli (apocalittico il suo "Ah! Delitto orrendo"), il Trovatore e l'Aida, la Miller e la pur sbiadita (non per colpa sua) Forza del destino. Però, all'epoca, Giaiotti era considerato più un cantante per il pubblico americano che italiano. Nel senso che la lunga carriera al Met (26 stagioni consecutive, pensate) lo aveva allontanato dai palcoscenici maggiori della madrepatria in favore di quelli statunitensi in cui c'erano più denari e meno rischi. Certo, ogni estate, libero dagli impegni oltre oceano, tornava all'Arena di Verona, dove si esibì dal 1963 al 2001. Ma si sa: quello dell'Arena è un pubblico nazional-popolare, non raffinato come quello della Scala o di Parma... Insomma, con la solita spocchia che ci contraddistingue (la cucina italiana è la migliore, la Scala è il primo teatro del mondo, il campionato di calcio italiano è il più bello ecc...) lo avevamo etichettato come un basso di buona qualità, ma più adatto ai ludi circensi estivi che ai veri teatri. Inutile aggiungere che avevamo torto. Ero presente al suo esordio alla Scala nel 1986 come conte Rodolfo nella Sonnambula. Lo spettacolo era noiosetto, montato solo per poter far debuttare June Anderson a Milano. Ma la Anderson, ahimè, ogni volta che doveva esibirsi in sale grandi, forzava e la sua voce si sfarinava e sembrava non ben proiettata. Lo dico perchè, proprio in Sonnambula, l'avevo ascoltata l'anno prima al Malibran (sala piccola), dove fu fantastica. Insomma, tra le lentezze di un Gavazzeni, enorme direttore e uomo di cultura (i suoi libri si leggono tutto d'un fiato) ma irrimediabilmente anziano, una regia soporifera di Olmi, un cast talora discutibile ad eccetto dell'ottimo Alessio di Giuseppe Riva, svettava il conte Rodolfo di Bonaldo Giaiotti. Morbido, nobile, elegante, con una linea di canto d'alta scuola. Certo, la voce in alto oscillava a causa dell'età, ma che importa: una lezione di canto e di interpretazione. Lo ricordo ancora ieratico ed imperioso Noè nel donizettiano Diluvio universale al vecchio Teatro Margherita a Genova. Lo affiancavano un ottimo Garaventa, la Hayashi (fantastico soprano mai abbastanza lodata) e la Dupuy. E poi i Ramfis a Verona, il Requiem di Verdi a Lugano, La forza del destino ed Attila ancora in Arena e tanto altro ancora. Sempre ottimo, sempre perfetto. Ma voglio terminare con Nabucco. Si sa che Zaccaria è il ruolo più difficile dell'opera. Sì, più difficile anche di Abigaille, tanto che ho udito parecchie interpreti di questo ruolo infernale riuscire a farsi onore, mentre per Zaccaria faccio, tra i tanti che ho ascoltato, solo tre nomi: Alessandro Verducci, purtroppo ritiratosi troppo presto, Silvano Carroli che io e l'amico Luca Gorla andammo appositamente a sentire nel ruolo sempre a Verona (splendido) e Bonaldo Giaiotti, di gran lunga il più completo, entusiasmante e ligio ai dettami verdiani dei tre. Giaiotti cantò fino ad età inoltrata sempre con voce salda e senza smagliature. Un esempio per tutti.
Carlo Curami