Ottavio Garaventa
(Genova, 26 gennaio 1934 – Savignone, 18 marzo 2014)
Alla Scala lo chiamavano Scaraventa, chissà perché? Eppure, le note non le gridava, gli acuti erano sicuri ed il legato ottimo. Peccava di una certa qual inerzia interpretativa. Ma Ottavio Garaventa aveva voce eccellente e sicurezza tecnica assoluta. Era, dopo gli inizi baritonali presto abbandonati, il classico tenore jolly. Si ammala il Radames titolare del ruolo, niente paura: viene Garaventa. Il Rodolfo ufficiale fa le bizze: nessun problema, arriva Garaventa. Il Pinkerton è bloccato da uno tsunami in Indonesia, ecco il rimedio: Garaventa.
Non so quante volte, sia in Scala che in altri teatri, Ottavio Garaventa arrivò dalla sua Savignone (Genova) come un lirico capitan basilico a salvare spettacoli a rischio annullamento. Eppure, il pubblico non lo amava. Quantomeno non sempre.
Una volta al teatro Comunale di Piacenza si dava Un ballo in maschera. Cast eccellente: Olivia Stapp, Matteo Manuguerra (magnifico baritono) e Fiorenza Cossotto. Oltre a Garaventa, s’intende. Tutto fila liscio sino al terzo atto. Arrivati ad ”Eri tu” Manuguerra comincia a tossire, canta una frase su due, quasi soffoca, si fa portare un bicchiere d’acqua in scena e beve. Il tutto continuando a cantare. Il pubblico capisce il dramma dell’artista e gli tributa un trionfo epico al termine dell’aria. Cambio di scena: arriva Riccardo e Garaventa che aveva (miracolo) fatto anche alcune ottime sfumature, come può testimoniare l’amico Luca Gorla che era con me, replica la scena ansimante e catarrosa di Manuguerra. Compreso il bicchiere d’acqua. Ma il finale è diverso: finito il brano, gli spettatori imbufaliti lo fischiano e lo contestano impietosamente. Trovai la cosa decisamente ingiusta e me ne rammaricai. D’altra parte, come si suol dire, il pubblico pagante ha sempre ragione…
Altre volte vidi passare in una totale indifferenza sue interpretazioni che, riascoltate oggi, paiono eccellenti, come il Rodolfo della Bohème in Scala accanto a Mirella Freni od il Faust nel Mefistofele in una messa in scena geniale di Ken Russell al vecchio Teatro Margherita a Genova. Così come a Genova fu un eccellente Paolo il bello nella Francesca da Rimini e, soprattutto, uno straordinario Cadmo nel Diluvio universale di Donizetti. Io c’ero e vi posso assicurare che cantò benissimo e con grande sicurezza, forse aiutato dalla tessitura centralizzante e dallo stile declamatorio del ruolo.
Devo confessare che, personalmente, mi portava, come dire, una leggera sfiga: di ritorno da quel Ballo in maschera di cui prima parlavo, si scatenò un nebbione tra Piacenza e Milano come oggi non se ne vedono più e che erano rarissimi anche allora. Avvolti in quella coltre umida ed appiccicosa non si vedeva nulla e per tornare a casa, poco più di sessanta chilometri, ci mettemmo tre ore e mezza. Per passare il tempo, in macchina, individuammo in Garaventa il responsabile: un novello Chiarchiaro (Pirandello docet), per intenderci. La cosa fu confermata anni dopo quando con gli amici Davide Pelucchi e Luca Gorla eravamo avviati verso Novara dove il nostro tenore doveva debuttare Calaf all’aperto. Bene, la macchina si fermò e morì poco prima dell’autogrill di Novara ovest e non ci fu verso di ripartire. Fermi in quel luogo deprimente, al caldo e con le zanzare che ci torturavano, a tratti ci sembrava che l’eco della sua voce arrivasse fino a lì... ma era la fame, temo, che ci giocava un brutto scherzo. Ed a nulla valsero i quattro Camogli (nome ligure propiziatorio) che divorammo avidamente A volte, però, questa sorte maligna si riversava contro lo stesso Garaventa: ricordo benissimo che alla prima del Nabucco in Arena di Verona nel 1981, quello con la Dimitrova per intenderci, un enorme masso di cartapesta si staccò e quasi travolse il povero Ismaele, già maledetto precedentemente dagli altri ebrei. Tra parentesi, fu un Ismaele eccellente: giusto accento, giusta voce, giusta presenza scenica. In quegli anni fu ospite in TV, non ricordo se su Rai uno o Rai due, ovvero su Domenica in oppure L’altra domenica. Fatto sta che, intervistato, asserì che lui stesso era da considerarsi, nel repertorio italiano, come uno dei cinque maggiori tenori al mondo. Ovviamente ridemmo di questa affermazione. Però, a ben pensarci, tolti i soliti noti, non è che ci fosse molto altro di meglio in circolazione in quel periodo in grado di sfoggiare, come lui, buona voce e tecnica scaltrita. D’altra parte la carriera parla da sè: Scala, Staatsoper di Vienna, San Carlo, Opera di Roma, il Festival di Aix-en-Provence, l’Arena di Verona, il Bunkakaikan di Tokyo, il Colón di Buenos Aires, la Monnaie di Bruxelles e poi Marsiglia, Berlino, Francoforte, Lisbona, Chicago, San Francisco, Belgrado, Wiesbaden, Glyndebourne sono solo alcuni dei teatri che lo hanno visto calcare le scene, oltre praticamente a tutti quelli italiani.
Aveva 113 ruoli in repertorio, un record battuto solo da Domingo. Tra le opere che aveva cantato c’era un po’ di tutto: dall’Ernesto del Don Pasquale a Canio nei Pagliacci, dall’Otello ad Almaviva nel Barbiere di Siviglia, dalle operette di Offenbach al Gattopardo di Angelo Musco jr, di cui fu Tancredi (per intenderci il ruolo che fece Alain Delon nel film di Visconti) alla prima assoluta a Palermo nel 1967. Insomma, se non un grande interprete, almeno un tenore che aveva con una preparazione eclettica molte frecce al proprio arco.
Discografia non molto florida ed incentrata integralmente su registrazioni “live”. Di valore storico il già citato Diluvio universale di Donizetti ma molto validi anche la Dejanice di Catalani, I Rantzau di Mascagni ed I lituani di Ponchielli. Si tratta, se non erro, delle uniche registrazioni di queste opere ed ogni melomane dovrebbe possederle. Ed ascoltarle. Eccellente, anche per merito del resto del cast (Dimitrova e Bruson), il Nabucco dell’Arena di Verona in DVD. Su youtube c’è parecchio materiale, non sempre di buona qualità ma che rende a dovere il valore e la solidità della sua voce.
Una volta lo chiamarono al telefono da non so quale festival e non ricordo per quale opera, mi pare Turandot ma non ne sono certo. Era ora di pranzo e Garaventa, già in là con gli anni, era in famiglia davanti ad un piatto sublime di trenette con il pesto. “Aspettate un secondo” rispose, andò al pianoforte, provò “Ti voglio tutta ardente d’amor” con il Do in alternativa previsto da Puccini e disse: “Sì, sono in voce. Arrivo”. Mangiò le trenette e via in macchina verso il teatro. Non fece prove, andò diretto in scena e cantò benissimo.
No, non arrivò mai alla gloria e, forse, neppure alla fama.
Era uno di quei solidi professionisti di cui oggi più che mai si sente il bisogno.
Carlo Curami
Ottavio Garaventa - Dejanice: "Oh rea vita corsara!..." di Alfredo Catalani